Anno 0 Numero 04 Del 25 - 5 - 2007
Raccontare il non-detto
Alessandro Langiu, fra stile e impegno.

Mariateresa Surianello
 

E’ stridente già nel titolo lo spettacolo che Alessandro Langiu porta al Palladium, lasciando per una volta le sale autogestite e gli spazi extra teatrali frequentati abitualmente col suo teatro militante. Di Figlio Padre di Figlia Madre arriva senza ammiccamenti, acido nella scrittura drammaturgica e spiazzante nei contenuti, nonostante sia stato concepito come opera musicale. Ora infatti l’attore-autore tarantino solleva la partitura musicale dalla marginalità di Otto mesi in residence e se la cuce addosso, lanciandosi anche in duetti con la cantante (Marianna Campanile). Ne esce un concerto – si perdoni il pasticcio di parole – strumentale alle denuncie confezionate da Langiu con modalità tutte teatrali, ma regolate da una scansione cronachistica degli accadimenti.

Se già con i suoi precedenti lavori era difficile collocare questo attore-autore nell’alveo del “genere” narrazione, con Di Figlio Padre di Figlia Madre è chiaro che Langiu sia alla ricerca di nuove forme per raccontare fatti precisi, per sollevare i pesanti teli posti intorno a disastri ambientali (si ricordi Venticinquemila granelli di sabbia) o a condizioni di lavoro intollerabili, che pure vengono subite, specialmente nel nostro Meridione industrializzato nel disprezzo delle regole.

Alla sua terra di Puglia Langiu ha legato il suo lavoro, da oltre un decennio (a FestambienteSud, che lo coproduce, sta per debuttare Anagrafe Lovecchio, sul disastro dell’arsenico all’Italsider di Manfredonia), con un impegno nella diffusione delle informazioni che si trasforma in atto politico eccezionale, proprio perché mediato dai linguaggi della scena. Ma non regala un oggetto di facile consumo, la sua scrittura è frutto di una lunga gestazione, che sottrae ogni inutile orpello linguistico, fino a giungere a una sintesi dissonante.

Di nuovo, con Di Figlio Padre di Figlia Madre Langiu penetra nel quotidiano di un nucleo famigliare operaio e ne tratteggia piano piano il contesto. La sua denuncia qui è tutta concentrata sulla disoccupazione, specialmente intellettuale, che continua incessante a spostare masse di giovani dal Sud verso il Nord d’Italia. Li schizza appena, in attesa sul binario 3 dei treni a lunga percorrenza, questi giovani con le loro valigie piene di cose staccate dai muri, nel tentativo di portarsi dietro pezzi di una storia interrotta. E lascia poi allo spettatore il compito di completare il quadro. In piedi, davanti all’asta del microfono l’attore inizia a raccontare di Abo – anche i nomi sembrano la sintesi di un vissuto – appena diplomato, nel 1990, l’anno dei mondiali e degli sprechi, delle opere effimere nella loro debolezza progettuale e dei vuoti infrastrutturali. Le angherie subite da Abo sono ordinarie, come lo sfruttamento del primo datore di lavoro e poi il fallimento e la partenza per i doveri militari. E gli affetti lasciati anch’essi partire, verso Bologna: «Uhè, ma che c’ha ‘sta città?».

L’espressione dialettale si innesta nel testo, sgrammaticando, vivificando ed esasperando la durezza della quotidianità, in cui il dramma è l’ineluttabile perpetrarsi delle vicende, nonostante la coscienza di classe del nonno Mimino, ex lavoratore ai cantieri navali. L’atomizzazione della generazione degli anni Novanta è già compiuta, ogni azione è casuale, nella perdita di ogni traccia di progetto collettivo. Dopo la raccolta dei pomodori – col rischio caporalato – nella campagna dell’ex compagno di naja Stecco, Abo approda in fabbrica – con un contratto a termine, naturalmente. Ma l’incidente alla mano di Sara e il grido di Abo per avere un’ambulanza lo chiudono molto prima del previsto, quello schifo di contratto.

Un lavoro sul non detto, concettuale, questo Di Figlio Padre di Figlia Madre, che apre libertà di immaginazione allo spettatore, continuamente sollecitato ad intervenire, a completare. Mentre Langiu, compito nel suo completo fumo di Londra, si mostra essenziale anche nella gestualità, spesso rivolta alla band che gli sta intorno (Matteo Nahum e Marco Leveratto- chiatarre, Cristiano De Fabritiis – batteria, e la citata cantante). Solo nel finale si scioglie in una concessione e strizza l’occhio al pubblico plaudente con la replica del ritornello molto orecchiabile “Face male a capa, face male a capa, oh, oh, oh/ Sono disoccupato/ cerco un posto di lavoro...”