Anno 0 Numero 04 Del 25 - 5 - 2007
Lumen desolato
Tumore ovvero come raccontare la malattia e ritrovare Pirandello

Attilio Scarpellini
 

“Ora le spegnerai tutte, vero? Ma questa no, lasciala ancora per un poco…”. E’ la luce, sulla scena dello spettacolo di Malebolge, “desolato” come la terra di Eliot, a scrivere gli ondeggiamenti della vita, il va e vieni di un’identità incerta e moribonda che sul palcoscenico c’è e insieme non c’è mai, almeno fin quando un rivolo di luce la illumina. Ma qui, in una specie di zona stalkeriana tra la vita e la morte, nella corsia di ospedale dove la dottoressa e la madre attendono che Virginie si risvegli dall’operazione, il “dolce lume” è assediato dalla penombra, si spegne e rinasce nei fasci radenti che investono i corpi e inseguono la parola – e la parola esita, inciampa, si accartoccia comicamente sulla soglia di una vita troppo nuda per essere accolta: si è vivi fin quando si vede e si è visti, si è vivi fin quando si continua a parlare. Ci vorrà un poco perché nello sguardo leggermente fuori fuoco di uno spettacolo che mima la lentezza e la frenesia, la distrazione e la concisione del tempo della malattia, l’abissale meccanismo metateatrale che lo sostiene si precisi e si riveli in tutto il suo malinconico splendore: ingannati dalla deformazione grottesca dei gesti e dei tic dell’istituzione medica, poi improvvisamente rigettati nell’afasia tragica di una madre senza forza che, avvicinandosi pericolosamente al pubblico, interroga direttamente il silenzio degli altri e di Dio, sedotti da una lingua che nell’insignificanza del balbettio nasconde gli impeti bruschi dell’aforisma, con esiti talvolta irresistibili (“perfettamente comprensibile il silenzio di Dio, anch’io parlo solo con poche persone.”), nemmeno ci rendiamo conto che a partire dall’Intermezzo un altro orizzonte si è aperto attorno a noi e ci sta inghiottendo nel suo paradosso conclusivo. Avevamo dimenticato che a teatro tutto è sempre al posto di qualcosaltro: il personaggio per la persona, l’attore per il personaggio, la scena per la realtà etc. E con la beffarda onnipotenza di un demiurgo che, esiliato in cielo, fa piovere in scena i suoi decreti, Lucia Calamaro, autrice e regista di Tumore, per ricordarcelo, ci imprigiona in una mise en abime pirandelliana, in una gabbia logica da cui (in quanto spettatori, e dunque anche noi, teatro) credevamo di esserci liberati, a dire il vero parecchio tempo fa. Perché Viriginie, la figlia in coma, è, sì, colei che deve essere risvegliata, quella che deve tornare alla luce della vita, la donna chiamata a risorgere dal canto e dal pianto, ma è anche quella che non è arrivata, che non ha voluto o non ha potuto interpretare la parte di Virginie – l’attrice che dorme il suo sonno nel nuovo personaggio che non entrerà mai in scena, ma resterà fino alla fine in quell’al di là né vivo e né morto, né vero né falso, che, da fuori, asperge il palco e la sala con il suo lumen desolato. Nel momento in cui un cambio di luce suggella, come in un Dibbuk, la metamorfosi della madre in figlia, Tumore slitta in una metafisica dell’illusione teatrale che, scoperchiando tutti i suoi meccanismi di sostituzione, afferma che la propria menzogna è vera almeno quanto la presunta verità di un mondo che dimentica la vita ai margini di un letto d’ospedale e che continua a parlare solo perché al dolore non trova una risposta. “Chi dice che quel che è vero sia più vero di quel che non lo è?”. Se in scena il ferro da stiro fuma sul serio, se il caffè veramente bolle, non è perché il teatro sia reale - ma perché non è reale il mondo in cui tutto questo accade con la naturale disinvoltura che banalizza ogni gesto, ogni dialogo che finga di non essere scandito dall’orologio segreto della morte. Tutto finirà risucchiato nel buio in cui pubblico e attore, lo stesso e l’altro, muoiono avvinghiati dopo il click che uccide l’ultima fioca luce che bacia il personaggio. Nel frattempo, Tumore ha compiuto una parabola esemplare e quasi perfetta che, nell’aria ancora un po’ impastata dall’ odore acre della polvere di un mortaretto lanciato dalla pirotecnica dottoressa interpretata da Monica Mariotti, lascia alcune tracce indelebili. La regia moltiplica i pani e i pesci di una desolazione scenica che, due ore dopo, è una bolla piena di musica e di senso, mentre Benedetta Cesqui e Monica Mariotti, le due interpreti crescono di luce in luce e finiscono per stagliare un’ombra gigantesca su un’identità che dapprima sembrava solo il riflesso condizionato per eccesso o per difetto - nevrotico o indigente, comico o depresso - di una lingua impronunciabile, soffocata fisicamente dall’alienazione della malattia. Dalla sua fusione a cera persa, la Cesqui, madre figlia e fantasma, libera un calco derelitto, una scultura alla Giacometti che è il ritratto della sofferenza di tutti e di nessuno. Ma è così vibrante il suo flauto di ossa che persino i movimenti più sottili diventano vistosi. Mentre sulla scaletta che porta in platea il suo corpo restava sospeso in un monologo, si sentiva il leggero fruscio delle sue dita che frustavano l’aria come ali di una farfalla agonizzante…