Cecilia Alemani
Cecilia Alemani
Una veduta di
Una veduta di "No Soul For Sale" all'interno della Turbine Hall della Tate Modern

Anno 3 Numero -01 Del 01 - 11 - 2010
Arte allo Stato fluido
Un dialogo con Cecilia Alemani sul sistema dell’arte no-profit

Gian Maria Tosatti
 
Cecilia Alemani, classe 1977. Il suo profilo potrebbe essere compatibile con quelli tracciati dal recente articolo del Times intitolato «Arrivederci Italia! Why young Italians are leaving». La incontro a New York dove è arrivata qualche anno fa per studiare e mi dice che «una volta che vieni qui è difficile tornare indietro» e che se fosse tornata sarebbe «finita a Milano a fare cosa?». E invece nella grande mela è diventata direttrice di X Initiative, una delle rivoluzioni artistiche newyorkesi in tempi di crisi economica e fondatrice di No Soul For Sale, la fiera degli spazi indipendenti d’arte contemporanea che ha messo in fila due edizioni di grosso impatto, l’ultima delle quali si è tenuta nella pancia della balena, ossia nella leggendaria Turbine Hall della Tate Modern di Londra, membro dell’aristocrazia dei musei mondiali e che tutto è tranne che indipendente. Conflitto o collaborazione? Bisognerà chiederlo a lei che di questa materia è quel che si dice una giovane autorità. E in un caffè italiano di Lower East Side, il quartier generale dell’arte contemporanea emergente americana, la Alemani si presta ad analizzare con noi accordi e stonature nell’idea di indipendenza che, come lei stessa afferma, «nell’arte è un concetto molto fluido attualmente. Non in senso negativo però. L’indipendenza va contaminando il sistema in modo trasversale. Non c’è più l’idea di spazio indipendente che si costituì attorno agli anni ’60. Adesso è tutto più diluito. Ne abbiamo avuto conferma nelle due edizioni di No Soul For Sale, in cui quasi tutte le strutture che vi hanno preso parte erano spazi “promiscui”, ovverosia inclini a sviluppare al contempo rapporti e progettualità diverse rispetto agli artisti e al mercato».

«Nell’arte credo che il concetto di indipendenza sia diventato molto labile dal momento che non è più chiaro “da che cosa” si è indipendenti. All’inizio degli anni ’60 gli spazi indipendenti nascevano in opposizione al museo o alla grande istituzione americana. Oggi il sistema di è molto diversificato. C’è una rete fitta di gallerie, di riviste, di curatori che lavorano autonomamente e non si può essere integralmente indipendenti da qualcosa di così fluido». Ed è incontestabilmente vero, però, di contro, se il sistema è già così saturo di figure mediane qual è il vuoto che i cosiddetti “spazi indipendenti” sono chiamati a colmare? Per spiegarcelo Alemani torna di nuovo agli anni ’60 che videro nascere luoghi come Artists Space o White Columns come «realtà dichiaratamente indipendenti dal sistema delle gallerie che dominavano e dominano tutt’ora il sistema dell’arte e le cui strategie erano dettate in ultima analisi dalle leggi di mercato». Veniva dunque a crearsi una sorta di periferia dell’Artworld, collocata al di fuori, «delle mappe dei grandi collezionisti o dei grandi curatori in cui la piena libertà intellettuale dell’artista si bilanciava con la limitatezza delle risorse». Un quadro che non sembra troppo diverso da quello attuale, ancora segnato dalle strade consolari che uniscono i luoghi cardine del sistema e ai margini del quale crescono le colture più vitali e contemporanee.

Per questioni economiche o semplicemente di tempo (se come in tutte le realtà parallele dominate dalla finanza il tempo finisce per esser denaro) non è facile né immediato uscire dalle autostrade per prendere le vie alternative, ma se lo si fa il cambio di paesaggio è evidente: «Se per esempio qui a New York ti fai un giro a Chelsea, ti rendi conto di quanto a livello estetico ci sia una omologazione assoluta rispetto a ciò che si vede. Non che la qualità delle opere non sia alta, ma è tutto preformattato ed obbediente ad una particolare logica di mercato. Negli spazi indipendenti invece la differenza sta proprio nel fatto che quel tipo di estetica precostituita è quasi del tutto assente. E anche se si tiene conto della fluidità di cui accennavamo prima, si nota questa differenza, perché seppure gli artisti che gravitano nel mondo delle grandi gallerie, talvolta tornano ad agire all’interno degli spazi indipendenti, lo fanno proponendo il proprio lavoro in una modalità diversa rispetto a quella della galleria». Ed è proprio da questi casi che si può capire meglio la sostanza del discorso. Sembra esistere, infatti, la necessità di una realtà complessa, fatta di momenti e circostanze non oppositive, ma complementari. L’anima commerciale e quella sperimentale devono necessariamente convivere e dunque su questa base viene a crearsi una stratificazione che può essere attraversata trasversalmente. E’ un gioco di vasi comunicanti, in cui ogni passaggio è necessario «al sistema dell’arte stesso. Perché gli spazi di cui stiamo parlando svolgono un lavoro di filtro di cui poi si giovano anche le gallerie o le istituzioni museali. Nella carriera di un artista lo spazio indipendente è una tappa che sta fra la scuola e la galleria. Il grande gallerista non sempre va a cercarsi i talenti nelle scuole, ma sicuramente è attento a vedere cosa emerge nel contesto delle realtà indipendenti» che dunque diventano  parentesi di libertà per artisti che già si esprimono a pieno nel sistema istituzionale, ma anche incubatori per quelli che devono ancora entrarvi.

E tale inter-dipendenza sembra essere più di un concetto per la Alemani che lo ha sperimentato nei fatti, a partire da X Initiative, che per un anno è stato l’ombelico del mondo indipendente e che però nei fatti è nato per iniziativa di una gallerista di Chelsea, Elizabeth Dee «che aveva preso contatti con la proprietà di quell’edificio per potercisi trasferire assieme ad altre gallerie in una operazione che la crisi economica ha reso impossibile. A quel punto lei è riuscita a convincere i proprietari a mettere a disposizione lo spazio per un anno a vantaggio di una iniziativa estemporanea in cui lei stessa ha avuto un ruolo attivo, anche se in un contesto diverso da quello commerciale. E’ il senso di quella fluidità di cui stiamo parlando e che in questo caso ho trovato molto affascinante. Se vogliamo essere cattivi potremmo parlare di “conflitto d’interessi”, ma in un sistema a maglie incrociate non ha quasi senso, perché è il sistema stesso a basarsi su tali conflitti e in questo caso Elizabeth non ha concretamente guadagnato nulla dal lavoro su X Initaitive». Ovviamente il ritorno d’immagine però c’è stato, ma non è stato qualcosa di diretto. E’ stato piuttosto qualcosa di più complesso, una operazione semantica quasi sul concetto di “indipendenza”, che ha portato la stessa Elizabeth Dee «un mese dopo la chiusura di X Initiative ad inventarsi, in occasione dell’Armory Show, una fiera chiamata Independent che raccoglieva molte delle più interessanti gallerie europee, ma che gioco forza, indipendente non era».

E a proposito di operazioni semantiche diventa d’obbligo una domanda e cioè se “no-profit” e “indipendente” siano parole sovrapponibili o se ci sia una differenza sostanziale. La Alemani ci riflette giusto un attimo, per dire che «fare una distinzione è qualcosa di utopistico a questo punto. I contorni di tutte queste realtà nel tempo sono cambiati moltissimo. Lo spazio no-profit è semplicemente uno spazio che non guadagna e che di contro ha delle agevolazioni fiscali. Però teniamo conto che tutti i musei americani sono no-profit e questo gli consente di avere sgravi fiscali, donazioni, ecc. Anche le fondazioni sono di fatto realtà no-profit. Però non vuol dire che siano “indipendenti”. Ma anche qui bisogna chiarire indipendente da cosa. La fondazione Arnaldo Pomodoro non è certo indipendente dal signor Arnaldo Pomodoro che ci fa la mostra delle sue opere. C’è dunque una sovrapposizione continua di questi termini, ma non vuol dire che siano omologhi ovviamente». Ma allora, obietto, anche un direttore artistico che abbia una idea molto precisa ed usi il suo spazio quasi a dimostrazione di una “tesi culturale” pone la propria struttura in una prospettiva di dipendenza per certi versi. «Effettivamente - risponde la Alemani - qui è la centralità della questione. Gli spazi vivono in funzione di chi li anima o li dirige. Artists Space oggi non è più quello degli anni ’70, perché nel frattempo oltre al contesto storico sono cambiati anche i direttori e dunque i punti di vista sull’arte».

Per quel che riguarda le “dipendenze” dal contesto storico, ad esempio, questi ultimi anni sono stati un caso esemplare. «In relazione alla crisi economica, infatti, c’è stata una svolta reazionaria da parte delle grandi gallerie. A New York l’anno scorso tutte le grandi mostre commerciali erano storicizzate, legate agli anni ’60 e quindi facilmente vendibili. Ci si sarebbe potuto aspettare qualcosa di diverso, qualcuno che avesse potuto provare a cambiare scenario e invece no. Questo ruolo allora è toccato ai no-profit che hanno mantenuto un contatto col presente e con la comunità degli artisti giovani, anche con strumenti poveri come i talks, che non costavano niente, ma di contro permettevano di sviluppare un dialogo effettivo, reale, rispetto alle domande che quel determinato momento storico poneva a tutti, artisti compresi». Ed effettivamente è proprio la relazione con la “comunità” degli artisti ad essere un elemento di particolare interesse rispetto a queste strutture la cui inclinazione dialogica può divenire elemento costitutivo di raggruppamenti di artisti. «Tutto dipende dal contesto geografico in cui sei. Nell’ultima edizione di No Soul For Sale ha partecipato uno spazio vietnamita che si chiama Sàn Art e che è di fatto l’unico spazio dedicato all’arte contemporanea in Vietnam. E raccontando la storia di quell’avventura, la direttrice e fondatrice, spiegava che il loro spazio fisico è l’unico in cui la comunità artistica si ritrova in un paese in cui non esiste il concetto stesso di galleria o di museo d’arte contemporanea. Ma questo era solo un esempio, uno spazio, che sia fisico o virtuale, come può essere una rivista, ha sempre la capaicità di poter diventare il punto attorno a cui una comunità ha bisogno di gravitare. Ma è vero anche l’inverso. A Milano, ad esempio, dove la situazione è drammatica per la mancanza di tutto, mi sono trovata ultimamente di fronte ad una marea di spazi indipendenti creatisi negli ultimi due anni come risposta al fatto che a livello istituzionale ci sono carenze totali e quel poco che c’è è gestito talmente male dall’amministrazione da far sì che il suo impatto reale sull’arte sia nullo. Ciò dimostra che una comunità si può auto-organizzare e creare i propri spazi se ne ha bisogno. Quindi non necessariamente si ragiona sul concetto di comunità che si riunisce attorno a un luogo, ma di luoghi che nascono per volontà di una comunità, piccola o grande che si riunisce». La stessa X Initiative, di cui abbiamo prima raccontato la genesi, non sarebbe potuta nascere solo dall’input di Elizabeth Dee se non avesse intercettato «una parte della comunità artistica newyorkese che si è messa insieme per rimettere in funzione quell’edificio dismesso». Per questo gruppo di cui faceva parte la Alemani in qualità di animatrice prima ancora che di direttrice non si può parlare di «comunità in senso tradizionale, fatta di riunioni collettive e quant’altro, però è stata una esperienza nata in accordo fra alcuni soggetti di questa città in cui ognuno ha svolto il suo ruolo. E questo ha fatto sì che si creasse qualcosa che in quel momento stava dialogando al presente con l’arte. E si finiva per avere ogni settimana cinquecento persone che venivano a sentire una conferenza, magari anche noiosissima, ma che in quella circostanza poteva essere più interessante che andarsi a vedere una mostra nelle gallerie di Chelsea. Quindi gli spazi nascono da contesto sociale, ma anche temporale».

Tutto questo però deve fare i conti anche con un altro contesto, quello geografico, che, per certi versi, No Soul For Sale ha avuto la possibilità di mappare potendo osservare le differenze da paese a paese, e di notare tutte le sproporzioni del caso. «In America, ad esempio, gli spazi indipendenti sono sempre esistiti ed hanno una loro chiara collocazione nel sistema dell’arte. In Italia è già diverso. Anche perché aprire uno spazio indipendente in America non è difficile per via delle agevolazioni economiche e del fatto che il tuo ruolo è riconosciuto dal sistema e, in primo, luogo dai collezionisti. Nel nostro paese è tutto più difficile. E l’impresa diventa spesso volontaristica, in cui sei costretto a metterci i tuoi soldi e il tuo impegno non retribuito. Ma le differenze aumentano se ci si sposta su altre zone del mondo. Nella seconda edizione del festival, per esempio, ci sono state molte più adesioni da parte di spazi orientali e si sono potute quindi notare differenze macroscopiche. Ad esempio, in Giappone è quasi inesistente la concezione di spazio indipendente. C’è un sistema istituzionale forte da una parte e un sistema di gallerie molto forte dall’altra. E manca del tutto un termine intermedio in cui un gruppo di curatori o artisti possano prendere uno spazio e fare una loro programmazione. In Cina o in Corea, invece ce ne sono molti e sono punti di riferimento reali per la comunità artistica. Ma anche in occidente ci sono delle differenze sensibili. Perfino se si mettono a confronto i due sistemi artistici apparentemente più simili, quello americano e quello britannico. In entrambi i paesi le strutture no-profit sono moltissime e attivissime, ma in Inghilterra hanno una connotazione maggiormente politica. In America lo spazio indipendente è considerato come semplice “spazio espositivo”, mentre invece in Inghilterra si ha l’idea che quei luoghi siano punti di espressione della comunità artistica e in questo senso si caricano di significati politici e sociali».

Restando sull’ultima edizione di No Soul For Sale una domanda si pone quasi automaticamente visto che ad ospitare questo incontro fra indipendenti sia stato uno dei più importanti musei statali del mondo, la Tate Modern. E allora dopo aver ragionato sui vasi comunicanti che uniscono il mondo delle gallerie commerciali a quello del no-profit, sarà il caso di capire anche quali siano le connessioni fra quest’ultimo e la galassia museale. Secondo la Alemani però, sempre in relazione alla scena americana, qui l’unica relazione reale è essenzialmente economica, ossia «i soldi arrivano dalle stesse tasche. Gli stessi collezionisti supportano il MoMA e White Columns (ovviamente in proporzioni diverse). Ma da un punto di vista strategico la comunicazione fra spazi indipendenti e musei sembra di fatto nulla». E a dire il vero trovare a tutti i costi delle chiavi per collaborare «non sembra necessario. Anche perché in una collaborazione del genere pioverebbero sulla struttura più piccola un sacco di vincoli che quella struttura non vuole avere ed è proprio per questo che magari è nata. Altrimenti i suoi curatori magari sarebbero andati a lavorare per qualche museo invece di aprirsi il proprio spazio no-profit. Una convergenza in tal senso non sembra uno step necessario. Gli strati diversi (a prescindere dal loro senso gerarchico) servono a rendere ampio il respiro di un sistema. Se gli strati si dovessero compattare o fondere, è difficile dire quale sarebbe il vantaggio per il sistema stesso».

Per gli alfieri della galassia indipendente però le porte dei musei non sono certo chiuse. Alla stessa Alemani in occasione della grande mostra Greater New York al P.S.1 è stato chiesto di curare una sezione riservata ai curatori indipendenti perché affiancassero il loro punto di vista a quello dei loro colleghi istituzionali. In questo senso «il museo si è assunto un rischio interessante, anche perché sarebbe potuta venir fuori qualcosa di anche di più interessante rispetto a quanto sviluppato da loro». Per qusto progetto la Alemani dichiara di aver «avuto carta bianca, ma questo significa anche che non c’è stata reale collaborazione. Quindi si può pensare che tutta l’operazione sia stata guidata da una logica che potesse mettere il museo a riparo da critiche di parzialità che comunque una iniziativa come Greater New York poteva tirarsi dietro. Ciò dimostra che c’è comunque e sempre un rapporto impari fra gli obiettivi dei piccoli come noi e dei grandi musei. Ciò non toglie che sia stata comunque una esperienza straordinaria e interessante».

Il quadro a questo punto sembra completo, un canovaccio esperienziale da cui partire per una riflessione sugli spazi indipendenti che sulle pagine di una rivista non può andare oltre, ma che invece è tempo che si rilanci nella pratica e nella politica culturale in luoghi, come è appunto l’Italia, in cui sembra ancora troppo ampia la differenza di consapevolezza fra le diverse parti di un sistema che si muove a diverse velocità provocando più strappi che avanzamenti.