Anno 2 Numero 08 Del 2 - 3 - 2009
Lo Stato che non c’è
Editoriale

Gian Maria Tosatti
 
Non vogliamo parlare dello Stato che non c’è, dell’Italia, che negli anni si è spogliata di un corpo sociale reale diventando un paese in cui il concetto di popolo è stato sostituito da quello di “abitanti”, ossia di persone che “fisicamente” nascono o transitano all’interno dei confini nazionali. Non vogliamo parlarne perché il tema è immenso e va da questioni pratiche come la tutela del lavoro e dei diritti ad esso connessi, fino ai concetti alti di opinione pubblica, di integrazione interculturale e via dicendo. Non ne vogliamo parlare perché di tutte queste cose abbiamo, giorno dopo giorno, negli ultimi anni, già celebrato pubblicamente i funerali, e dunque non ci interessa oggi riesumare i cadaveri. Non vogliamo parlare dello Stato che non c’è, perché non c’è, e dunque non c’è più nulla da dire. Lo Stato che non c’è è la premessa, il dato acquisito, con buona pace di tutti.
Vogliamo parlare invece del nuovo Stato. Quello che succede all’Italia defunta. Di quello sì vorremmo parlare. Ma non ci riusciamo, perché neppure il nuovo Stato c’è.

A dimostrarcelo la settimana scorsa è stato il tracollo personale di Walter Veltroni e del suo progetto politico. Per mesi, infatti, ci siamo sentiti dire che era nato il primo partito 2.0, ossia dell’Italia di seconda generazione. E mentre ascoltavamo la cosa ci sembrava credibile, perché effettivamente ogni mossa, ogni singola mossa del Pd non dava la minima risposta alle necessità della vecchia Italia e dei vecchi italiani, quelli 1.0. Il Pd chiudeva i ponti con i valori del socialismo, chiudeva i centri culturali autogestiti che erano diventati cantieri di una nuova identità generazionale, chiudeva le porte dell’Europa ai partiti minoritari che pure rappresentavano movimenti e mondi con cui dialogare. E così rapidamente «il più grande partito riformista della storia di questo paese» è diventato il più grande fallimento politico della storia repubblicana. A forza di chiudere con tutti il Pd ha finito per non rappresentare nessuno. Lo dimostra la grande mobilitazione giovanile contro il governo che ha categoricamente eliminato ogni legame con i rappresentanti della nuova sinistra parlamentare. Ma i dirigenti non l’avevano presa sul serio, perché allora si trattava di fenomeni, non di voti (ossia di poltrone). Poi è arrivata la Sardegna e lo schiaffo è stato sonoro, il Pd non ha raggiunto il 25% a fronte del 33% che nella tornata precedente era stato il bottino complessivo dei singoli partiti. Il popolo del Pd, gli italiani 2.0 non sono andati a votare perché non esistono. Veltroni, l’uomo che aveva sbagliato tutto, se n’è andato. E cosa resta ora?

Resta un territorio senza Stato, su cui sono insediate strutture che non assomigliano a nessuno. A sinistra resta in piedi un partito senza elettori. A destra rimane in piedi un potere che non rappresenta la vera realtà del paese odierno. Che fa proclami xenofobi privi di fondamento nei territori del diritto europeo, che si produce in guerre stellari inter-istituzionali lontane anni luce dai problemi della nazione, che finge di vivere ancora nell’Italia degli anni ’50, quando l’immigrazione era un fenomeno circoscritto, che costruisce le centrali nucleari a prescindere dalla volontà popolare, perché è più facile adattare la natura all’uomo che l’uomo alla natura. E poi ci sono le ali estreme. I partiti della sinistra radicale, talmente abituati a fare spartizioni che si sono spartiti anche i partiti diventando una galassia inafferrabile e illeggibile e i neofascisti che si sentono ancora italiani solo perché sono nostalgici allenati.
E ai piedi di tutti questi edifici del potere completamente vuoti, per la strada, ci sono gli abitanti di questa nazione. Irrappresentati. Del tutto privati degli strumenti per costruire un nuovo Stato che possa accoglierli. Clandestini col sogno di andarsene via.