Uno dei panneli di
Uno dei panneli di "Nero - Inferno"
Un'immagine delle prove
Un'immagine delle prove

Anno 2 Numero 03 Del 26 - 1 - 2009
Come tronchi d’ulivo
Enrico Caravita racconta i bambini palestinesi di Jenin protagonisti dello spettacolo “Nero – Inferno” di Ponte Radio

Mariateresa Surianello
 
In una terra di tragiche doppie verità, dove la visione del reale non è mai univoca ben che meno quando i morti e le macerie sono lì a scrivere la storia, il teatro trova spazio e forse recupera la memoria di un fare collettivo disperso sui labili confini di quella stessa terra rubata, riconquistata e poi di nuovo occupata. Non è casuale che il gruppo Ponte Radio sia approdato a Jenin, nel nord della Cisgiordania, dove quelle linee continuamente ridisegnate si trovano ora marcate da otto metri di cemento armato che scorrono per chilometri e chilometri, intervallati da torri di controllo. E’ il muro che il governo di Israele sta erigendo intono al popolo palestinese, a dimostrazione del fallimento di qualsiasi idea di convivenza pacifica e in barba alle violazioni del diritto internazionale. Qui a Jenin, il lavoro di Enrico Caravita e Alessandro Taddei, fondatori di Ponte Radio, sembra tornare sulle orme di Arna Mer Khamis, l’israeliana che nei Territori Occupati aveva portato ai bambini una speranza con il suo Freedom Theatre (nel campo profughi distrutto nell’aprile 2002 dall’esercito israeliano; su quest’altro massacro il film di Mohammed Bakri, Jenin, Jenin, discusso, contestato e poi abiurato, è da vedere). Caravita, Taddei e gli altri artisti che dal 2005 si raccolgono nel gruppo ravennate sono andati a lavorare con quei bambini palestinesi e proprio a Jenin, lo scorso 13 giugno, ha debuttato lo spettacolo Nero – Inferno, inserito da Maurizio Scaparro nel programma della Biennale Teatro, dedicata al Mediterraneo. Prima parte della costruenda trilogia di colori che in questo 2009 porterà Ponte Radio tra la comunità turca di Berlino per “Rosso” e poi in Libano nel 2010 in cerca del “Bianco”.
All’indomani del cessate il fuoco nella Striscia di Gaza, mentre ardono ancora i roghi provocati da probabili agenti incendiari fosforici – e i rapporti dei medici internazionali sui cadaveri parlano di agenti radianti - abbiamo incontrato Enrico Caravita, attore e regista di questo gruppo che sta innestando la sua ricerca in tessuti sociali dilaniati da guerre e genocidi.

Rivolgete sempre lo sguardo verso situazioni in cui si consumano conflitti, tu e Alessandro Taddei siete uniti da una necessità comune. Come nasce Ponte Radio?
Ci spinge la curiosità, ci siamo conosciuti con Lady Godiva Teatro per lo spettacolo Napoleone, Alessandro ha composto ed eseguito le musiche e io ero uno degli ideatori e attori. Poi è nato Ponte Radio, come un gioco. Volevamo scrivere un progetto per partecipare al concorso “C’entro anch’io” di Coop Adriatica e allo stesso tempo avevamo intenzione di lavorare con i bambini, ma per raccontare una storia agli adulti. Il bambino è capace di portare per mano l’adulto. Perché ha in sé la capacità di creare nuove parole e quindi sa mostrare, sa nominare le cose con un altro nome, un nome nuovo. Per il primo progetto abbiamo lavorato con la scuola elementare di Alfonsine, vicino Ravenna, e siamo andati a “gemellarla” con la città di Pancevo, vicino Belgrado, volevamo appunto creare un ponte e abbiamo lavorato con i bambini di Alfonsine e di Pancevo.

Perché avete scelto la ex Jugoslavia?
Alessandro era stato con Fulio Grimaldi a Pancevo all’epoca dei bombardamenti Nato sulle industrie chimiche, per fermare la guerra in Jugoslavia. L’industria chimica di Pancevo è molto simile a quella di Ravenna, ci siamo immaginati che se ci fosse stato uno specchio quel bombardamento sarebbe potuto accadere anche da noi. Ravenna si specchia sull’Adriatico, di fronte a noi, i nostri vicini sono quelli dell’ex Jugoslavia. Lo abbiamo chiamato Ponte Radio, perché il bambino è come una radio che riceve e trasmette. In questa prima idea, il tema del progetto era l’ambiente e volevamo che i bambini si raccontassero, mettendo in contatto due realtà, le scuole Matteotti e Rodari di Alfonsine e la scuola Branko Radicevic di Pancevo. Il primo anno abbiamo fatto costruire a dei bambini di quarta elementare un “palinsesto radiofonico” sul modello di Radio Alice degli anni ’70 (una delle prime “radio libere” italiane, era considerata l’emittente del movimento studentesco, trasmetteva da Bologna e fu chiusa dalle forze dell’ordine nel marzo del 1977, ndr). Divisi in quattro laboratori - teatro, musica, scenografia, danza – gli ottanta bambini hanno iniziato a creare parole nuove.

I bambini insieme alle donne sono i riferimenti del vostro nuovo lavoro, Nero – Inferno. Donne e bambini, che non a caso sono la maggioranza delle vittime degli ultimi giorni a Gaza...
Siamo arrivati in Palestina e abbiamo visto quanto sia il paese dei bambini. Va da sé che la donna assuma un’importanza primaria. Non ho mai messo piede a Gaza, ma nella West Bank i paesi e le città sono pieni di bambini. La Palestina è la terra madre.

La frase che ispira lo spettacolo: “Aria che porta al mare, che chiuso in gabbia diventa acqua, che è donna, che è vita, che è terra” crea immagini forti, di mancanza e di liberazione e rimanda al ciclo naturale.
Nella West Bank il mare non arriva, il popolo palestinese tocca il mare solo nella Striscia di Gaza. Il muro di Israele ha tagliato fuori tutte le fonti d’acqua, paradossalmente il mare arriva a Jenin attraverso il vento dei cinquanta giorni che porta l’aria, che porta la sabbia e l’odore del mare. Quindi il mare sta negli odori e nella sabbia, ma fisicamente non c’è. La donna è quest’aria, quest’acqua, questa vita, questa terra. La Palestina è condensata in questa frase. Nello spettacolo cerchiamo questo.

In un territorio devastato da una guerra permanente come viene accolto il teatro? Come avete lavorato con i bambini?
Lo spettacolo ha debuttato davanti a 400 persone, tra palestinesi, internazionali di diverse Ong e giornalisti. A Jenin non c’è un teatro, abbiamo affittato un parcheggio sotterraneo di un supermercato per allestirlo. Noi siamo andati lì con un’idea di lavoro aperta. Quando arriviamo in un posto ci fermiamo almeno tre mesi, per capire, vedere... per farci travolgere dalla terra che ci circonda. All’inizio con i bambini cerchiamo di capire fisicamente cosa hanno da raccontare. In Palestina la necessità di un teatro non è pressante, hanno ovviamente altri problemi. I bambini hanno resistito al nostro “colonialismo teatrale”, nel senso che noi siamo andati lì spogli di tutto, ma inevitabilmente abbiamo portato quello che avevamo imparato nell’esperienza precedente, col lavoro bosniaco. Ma questi bambini hanno un’altra realtà, che salta fuori quando inizi a sviluppare il percorso. Questo loro resistere ai nostri input ci ha fatti perdere e in questo nostro perderci i bambini ci hanno ripresi per mano. Allora, ci siamo posti la domanda: cosa siamo venuti a fare qui. A Jenin anni fa esisteva un teatro, il Freedom Theatre costruito nel campo profughi da una donna israeliana, Arna Mer Khamis, e distrutto durante la seconda Intifada come tutto il campo profughi. Quando, successivamente al nostro lavoro, abbiamo visto il film Arna’s children (realizzato nel 2003 da Juliano Mer Khamis, il figlio di Arna, ndr), ci siamo resi conto che non c’è stato uno scarto, ci siamo trovati di fronte alle risposte che avevamo raggiunto noi. Questi bambini sono riamasti fermi a vent’anni fa.

Stai dicendo che quei bambini del film ormai cresciuti hanno lasciato il posto ad altri bambini che vivono nella medesima condizione?

Sì, questa cosa ci ha fatto sobbalzare e, allo stesso tempo, riflettere. Siamo stati tre mesi a Jenin, abbiamo preso una casa in affitto, abbiamo vissuto con le persone, andando a fare la spesa al mercato... E abbiamo capito che lì mancava il concetto di squadra. Jenin ha una realtà culturale, simile a una città del Sud: famiglie molto numerose, c’è poco di tutto, ci sono molti prodotti agricoli, c’è da mangiare, ma non c’è denaro corrente. Ci sono tanti bambini e tutti sgomitano per emergere. Per la prima volta lavorando con i bambini mi è capitato di trovare molti volontari per gli esercizi. Mentre in Italia fai sempre fatica a portare al centro un bambino alla volta - devi sempre lavorare prima col gruppo e poi isolarne uno o due per creare un confronto - lì i bambini vogliono stare al centro dell’attenzione e quando questa viene loro a mancare si annoiano subito. E’ una cosa che emerge con forza, abbiamo lavorato molto per costruire una squadra che potesse essere unita. Anche giocando a pallone per strada, ti rendi conto che si creano subito delle microalleanze, in ogni squadra. Se giochi con grande altruismo non tocchi mai la palla, questa viaggia sempre a coppie.

Quanti anni hanno questi bambini e come li avete incontrati?
Sono bambini di 9-13 anni. Qui non abbiamo lavorato con una scuola, ma con un centro culturale, il Jenin Creative Cultural Center (istituito nel 2005 da un gruppo di giovani palestinesi, ndr), nato dopo la seconda Intifada per togliere i bambini dalla strada e fornire loro una possibilità di formazione culturale.

Tra qualche giorno questi bambini arriveranno in Italia, è un progetto impegnativo...
Sì, saranno sedici bambini con due accompagnatori. Abbiamo preparato tutti i documenti attraverso il consolato italiano di Gerusalemme e quello di Amman, ovviamente non viaggeranno attraverso Tel Aviv, perché non possono. Dovranno passare attraverso il Ponte di Allenby – controllato da Israele – e arrivare ad Amman, dove passeranno la notte e poi prenderanno un volo per Milano. Arriveranno il 26 febbraio, li andremo a prendere e con un autobus raggiungeremo Venezia. Ci aspettano le prove e poi lo spettacolo. Vedremo quale sarà la loro reazione, usciranno dal proprio paese per la prima volta.

Cosa vedremo sulla scena? Su quali linguaggi avete lavorato.
Il nostro lavoro non contempla l’uso della parola, ci siamo sempre posti il problema di rendere comprensibile a chiunque il lavoro compiuto in un determinato territorio. Ci sono momenti di parola, ma i bambini non recitano nel modo che lo intendiamo qui in Italia. La parola esce fuori nei canti composti da Alessandro. In Palestina, abbiamo lavorato sul disegno che contiene la parola araba. Affascinati dalla scrittura araba, abbiamo lavorato su quelle parole presenti nella filastrocca che hai letto prima. Parole che abbiamo imparato vivendo a Jenin. L’acqua del mare non c’è, è schiusa da un muro. Per scappare diventa goccia – deve diventare piccolissima per uscire. E quest’acqua è donna, che è vita, che è terra.

Quindi avete lavorato sul segno grafico?
Sì, ogni bambino ha un pannello di un metro e mezzo per un metro e mezzo, dotato di ruote, che può spostare, che può guidare. Questo pannello è un corpo, perché ci siamo trovati nella necessità di cercare un altro corpo. I bambini palestinesi sono diversi da quelli bosniaci, hanno un corpo che è come il tronco di un ulivo, molto chiuso, energetico ma compresso. Abbiamo fatto fatica a lavorare con loro. Quindi abbiamo dovuto spostato l’attenzione, il fulcro della visione su un oggetto. E attraverso il lavoro sul pannello è stato possibile lavorare sul corpo del bambino. Il pannello ha due facce, su una si può scrivere la parola e sull’altra si può comporre il disegno che rappresenta la parola stessa. A un internazionale che non comprende la parola araba gli viene mostrato un disegno che gliela svela. I pannelli sono neri e mentre i bambini li costruivano e col rullo li coloravano di nero ci siamo accorti della loro felicità. Fisicamente li hanno piegati questi pannelli.

Che poi il nero è il colore del titolo di questa prima tappa della trilogia.
Sì, di questa trilogia quasi dantesca, sicuramente non salvifica. Il nero è un colore che non ci permette di vedere al di là. E’ come un velo che ci copre gli occhi. Noi siamo partiti per scoprire la vita che pulsa nel sottosuolo.


A teatro: Venezia, Teatro Piccolo Arsenale. Domenica 1 marzo. Nero – Inferno del Gruppo Ponte Radio per la Biennale Teatro.

Il film Ponte Radio – Radio Most – prodotto da Lady Godiva Teatro e presentato in anteprima al Teatro Monti di Alfonsine e, nel giugno 2006, al Belgrado Film Festival – è scaricabile dal seguente link: http://www.arcoiris.tv/modules.php?name=Downloads&d_op=getit&lid=3830&ext=_big.ram