Anno 0 Numero 00 Del 17 - 5 - 2007
Un’occasione ulteriore
Editoriale di apertura per una nuova rivista.

Gian Maria Tosatti
 
Qualche giorno fa, in un’aula del Dams, la domanda che sembrava interessare di più agli studenti sembrava essere: “a cosa serve la critica?”. Rispondere non è facile. E non lo si può fare con una frase. Per rispondere si deve “fare”. Non ho mai creduto tanto alle parole nell’arte, alle spiegazioni. Personalmente non credo nemmeno nelle critiche come forme compiute e chiuse. La critica è un movimento, un dinamismo che si sviluppa nello scontro di due intelligenze lungo la linea del tempo. La prima intelligenza è quella dell’artista che pone una domanda necessaria la cui forma è definita dall’opera. La seconda intelligenza è quella del critico che pone i suoi dubbi sulla formulazione di quella domanda. Giacché ogni domanda, lo sappiamo, è una chiave, come nelle leggende antiche. E’ solo dalla precisione, o meglio dall’esattezza, della formulazione della domanda che dipende l’intuizione della risposta. Spesso ci vuole una vita, una vita nell’arte, per inseguire la formulazione di una sola domanda. Dieci, venti, trenta spettacoli, diversi uno dall’altro, ma accomunati dalla tensione verso un’unica risposta. Così è il destino di Artaud, Brecht, Grotowski, Bene, ma anche di molti altri artisti non altrettanto famosi. Di questi percorsi il critico (con nome e cognome) è un ospite discontinuo. Incontra il lavoro dell’artista e ne dà una lettura, talvolta estemporanea, altre volte un poco più connotata attraverso la condivisione di un tempo comune e di più tappe di uno stesso cammino. Quella lettura, in fondo, non è che una confidenza gettata nella fame oscura dell’autore dell’opera. Le sue ripercussioni hanno effetti a lungo termine. Sono misure attraverso cui calibrare le singole componenti della “domanda”. Strumenti gettati al buio perché possano essere ritrovati al momento opportuno e utilizzati dall’artista nel momento di una “full disclosure”.
Ecco, la critica, in sé e per sé non è che una parola che non vuol dire niente se non indicare questa relazione tutta umana, piena di infinite variabili, che si consuma solo attraverso gli incontri. Spesso c’è bisogno di molto tempo, molti anni, perché gli artisti capiscano veramente qual è la funzione della critica. Durante quel tempo tuttavia è necessario che si sia disposti a farsi incontrare, dando vita a molte occasioni di confronto, come questa rivista vuol essere. Alla fine si scopre che non esistono bocciature o promozioni, stroncature o celebrazioni. Che tutti gli articoli, in sé e per sé non volevano dire niente. Di interi discorsi restano poche sillabe, poche parole precise. I nomi dei critici sono stati dimenticati. Solo alcuni echi hanno resistito, un percorso di tracce che lette, una dopo l’altra forse compongono la formulazione esatta della “domanda”. Ché in fondo per conoscere sé stessi e il proprio mistero è necessario avere molti volti in cui specchiarsi. Con questa consapevolezza inizia il percorso de la differenza. La redazione si riunisce per seguire una fiera e si scioglie alla sua conclusione. Un movimento sincronizzato che forse è destinato a ripetersi o forse no. Da oggi fino al 28 maggio questa rivista avrà una nuova uscita ogni due giorni e seguirà tutti gli eventi di “Teatri di Vetro”. La scena romana indipendente convoca una fiera. Noi proveremo a scattare delle polaroid, dei piccoli echi di molte identità.