Una foto dalla installazione di Olafur Eliasson
Una foto dalla installazione di Olafur Eliasson "Your space embracer (Il tuo spazio avvolgente)
Wilhelm Sasnal - Untitled
Wilhelm Sasnal - Untitled

Anno 1 Numero 40 Del 24 - 11 - 2008
Il doppio mito di Saturno
I diversi volti della malinconia nel coerentissimo ragionamento di Daniel Birnbaum per la Biennale di Torino

Gian Maria Tosatti
 
«Mi sono spiato illudermi e fallire,
abortire i figli come i sogni,
mi sono guardato piangere in uno specchio di neve,
mi sono visto che ridevo,
mi sono visto di spalle che partivo
».
(Fabrizio De Andrè – Anime salve)

La domanda è: “di che tipo di malinconia ci parla Daniel Birnbaum?” oppure, più semplicemente: “che cos’è la malinconia?”. Perché il ragionamento del curatore della seconda Triennale di Torino (nonché della prossima Biennale di Venezia) è sofisticato e per quanto si svolga semplicemente nelle sue note introduttive, in realtà si mostra disseminato di crateri profondi, gole da capogiro, come quelle che punteggiano le 50 lune di Saturno (questo il titolo della mostra), pianeta della malinconia, ma prima di tutto metafora perfetta per dare forma al pensiero di Birnbaum. E’ questo astro, cui è collegato un mito, a fare da punto di contatto tra l’idea curatoriale e il lavoro degli artisti. Saturno, divoratore dei propri figli per i greci e portatore di un’età dell’oro nella tarda mitologia romana. Tale bilico a strapiombo fra il cannibalismo e l’energia, fra i risvolti del nero, sembra essere il filo di rasoio su cui con estrema precisione il curatore ha costruito un viaggio attraverso un sentimento profondamente contemporaneo. La sua formazione filosofica permette, in questo senso, di uscire dai meccanismi associativi classici dell’arte contemporanea e ottenere un idea generale di maggiore respiro che prende forma, come è naturale per la filosofia, in un filo sottilissimo tracciato con precisione matematica.
Ed è, infatti, questa esatta coerenza che segue il dipanarsi della Triennale nelle diverse sedi (Castello di Rivoli, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e Promotrice delle Belle Arti) senza mai cedere a stupire, in parte per meriti propri e in parte per una certa disabitudine che si ha in Italia per le mostre ben curate. Fatto sta che diversi elementi concorrono a far sì che il viaggio del visitatore, per quanto sballottato in tre punti assai distanti uno dall’altro nella topografia del capoluogo piemontese, non subisca mai strattoni permettendo all’attenzione di non calare mai e di non produrre in alcun caso un sovraccarico visivo che richieda uno stacco. Insomma, caso assai raro nel Bel Paese, la Triennale si riesce a vedere, tutta d’un fiato, riuscendo a seguire il suo flusso abbacinante dall’inizio alla fine. Merito va certamente alla scelta degli artisti (ben 50!) e delle loro opere. E una parte del merito va anche all’attenzione che gli si è dedicata, riuscendo a dare sempre lo spazio necessario perché ogni opera possa sviluppare una esposizione ottimale alla percezione del visitatore.

E sulla dicotomia malinconia-energia si gioca il principale fuoco della mostra. In tutte le opere è fortissima una tensione che presuppone il passaggio, una forza fisica che sviluppa energia, fino ad arrivare in certi casi alla superproduzione di azioni che si identifica con l’ossessività del malinconico. In ogni caso sembra il movimento ad essere grande protagonista, partendo dalle due personali, quella dedicata a Olafur Eliasson, il cui lavoro artistico è centrato da sempre sui movimenti delle grandi forze e che qui prosegue il suo ragionamento sulla luce in relazione ai movimenti dei corpi celesti, e quella dedicata a Paul Chan, in cui la stasi del punto d’osservazione nel suo video My birds… trash… the future (ispirato ad Aspettando Godot di Beckett) diventa superficie erosa e discarica delle ondate di movimenti che continuamente la stravolgono. Una sezione estremamente ricca quella dedicata all’artista sino-americano, che, per quanto possa essere percepita come una sproporzione, ha tuttavia il merito di riuscire a presentare con la giusta chiarezza l’importantissimo lavoro sul linguaggio che Chan porta avanti e che vede anche nel video Happines (Finally) After 35,000 Years of Civilization (after Henry Darger and Charles Fourier) un esempio di malinconia frutto della sterilità meta-mediale di un’azione (in cui non a caso è inserita una irrazionale vena sessuale) che fa perdere completamente la cognizione della ripetizione (tecnica) a loop inserendosi in una prospettiva temporale indifferentemente lineare.
E una stasi prossima al collasso, ma di segno opposto, perché forzata disperatamente nelle sue pareti perimetrali, è anche quella che sta al centro del lavoro di Andrea Geyer, che nel suo Audrey Munson Project ha fotografato gli alberi visibili dalle finestre di un manicomio in cui per 65 anni è stata rinchiusa quella che negli anni ’20 era considerata come la più richiesta modella dagli artisti newyorkesi. Su tali immagini Geyer ha impresso brevi strofe di poesie che parlano della malattia mentale femminile, andando così a realizzare un ciclo di opere estremamente duro sul modo in cui nel Novecento l’accusa di insanità mentale e l’interdizione fosse usata come forma di controllo sulle donne.

Ma anche il tema del doppio, visto come necessità di completezza attraverso l’immagine speculare fa parte di un universo malinconico fondato sulle tensioni. E’ questo il tema del video Les ruissellements du diable di Karen Cytter, ispirato all’opera omonima di Julio Cortazar e alla poetica di Lygia Clark (uno dei riferimenti strutturali di Birnbaum), in cui i piani dell’indentità si mescolano per una irresistibile forza inerziale di attrazione e generazione. E lo stesso tema, visto però in una prospettiva soggettiva è quello che porta Giuseppe Pietroniro, uno dei molti artisti italiani coinvolti, a proseguire qui la sua ricerca sulla necessità di una moltiplicazione dell’immagine che però nel riprodursi esclude l’osservatore.

Tra queste grandi dorsali dell’esposizione si intrecciano altre dinamiche immediatamente derivate dal concetto di malinconia. E’ il caso del complesso lavoro sull’utopia realizzato da Robert Kusmirowski, che in DATAmatic 800 ricostruisce, in una stanza visibile attraverso una finestra, il primo grande computer per calcoli matematici, in una operazione installativa che tende a ragionare sulle utopie attraverso la ricostruzione dei luoghi entro cui esse hanno preso forma.
E, in fine, il rapporto tra terrestre e altrove, nella misura della distanza fra l’uomo e lo spazio, vede nel pathosformel di Wilhelm Sasnal, ispirato direttamente a Saturno una delle espressioni più sintetiche e d’impatto (vedi l’opera Driving-Sleeping) di questa Triennale torinese.