La barricata di Sant'Antonio
La barricata di Sant'Antonio
La barricata in una illustrazione d'epoca
La barricata in una illustrazione d'epoca

Anno 1 Numero 39 Del 17 - 11 - 2008
La guerra fra quattro mura
Una descrizione delle barricate del ’48 da “I Miserabili”

Victor Hugo
 
Le due barricate più memorabili, che l'osservatore delle malattie sociali possa ricordare, non appartengono al periodo in cui è collocata l'azione di questo libro. Quelle due barricate, simboli tutt'e due, sotto due aspetti diversi, d'una terribile situazione, sbucarono da sotto terra nella fatale insurrezione del giugno 1848, la più grande guerra per le vie che abbia mai visto la storia.

Accade talvolta che anche contro i princìpi, anche contro la libertà, l'uguaglianza e la fratellanza, anche contro il suffragio universale, anche contro il governo popolare, dal fondo delle sue angosce, dei suoi scoraggiamenti, delle sue privazioni, delle sue febbri, delle sue miserie, dei suoi miasmi, delle sue ignoranze, delle sue tenebre, quella grande disperata, che è la canaglia, protesti, e la plebaglia dia battaglia al popolo.

I pezzenti assaltano il diritto comune; l'oclocrazia insorge contro la democrazia.

Sono giornate lugubri, perché c'è sempre un pizzico di diritto anche in quella demenza, un pizzico di suicidio in quel duello; e le parole accattoni, canaglia, oclocrazia, plebe, che vorrebbero essere altrettante ingiurie, dimostrano, ahimé! la colpa di chi regna piuttosto che quella dei diseredati.

Dal canto nostro, non pronunciamo mai queste parole senza dolore e senza rispetto, poiché, quando la filosofia investiga i fatti a cui esse corrispondono, vi trova spesso molte grandezze accanto alle miserie. Atene era un'oclocrazia; i pezzenti hanno fatto l'Olanda; la plebaglia salvò più d'una volta Roma, e la poveraglia seguiva Gesù Cristo.

Non c'è pensatore che non abbia talvolta contemplato le magnificenze delle infime classi. A quella poveraglia, a tutta quella povera gente, a tutti quei vagabondi, e a tutti quei miserabili da cui sorsero gli apostoli e i martiri, pensava san Girolamo quando diceva quella parola misteriosa: "Fex urbis, lex orbis". Le esasperazioni della folla che soffre e sanguina, le sue insensate violenze contro i princìpi che informano la sua vita, il ricorso alla forza contro il diritto, sono colpi di stato popolari e devono essere repressi. L'uomo probo si sacrifica e combatte la folla proprio per amore di essa. Ma come la trova scusabile pur tenendole testa! Come la venera pur resistendole! E' uno di quei rari momenti in cui, pur facendo ciò che è doveroso, si sente qualcosa che sconcerta e quasi sconsiglia di andare oltre; si persiste, se è necessario; però la coscienza soddisfatta è triste, e il compimento del dovere si unisce alla stretta del cuore.

Il giugno 1848, affrettiamoci a dichiararlo, fu un avvenimento a sé, quasi impossibile a essere classificato nella filosofia della storia. Tutte le parole vanno messe da parte quando si parla di quella straordinaria sommossa, nella quale si sentì la santa istanza del lavoro che reclamava i suoi diritti. La si dovette combattere, ed era un dovere, perché attaccava la Repubblica; ma, in fondo, che cosa fu il giugno 1848? Una rivolta del popolo contro se stesso.

Quando non si perde di vista l'argomento, non ci sono digressioni; sia dunque concesso di richiamare l'attenzione del lettore sulle due barricate assolutamente uniche, di cui abbiamo parlato e che caratterizzano l'insurrezione.

Una sbarrava l'ingresso del sobborgo di Sant'Antonio, l'altra difendeva le vicinanze del sobborgo del Tempio. Quelli che sotto il luminoso cielo azzurro di giugno videro sorgersi davanti quei due terribili capolavori della guerra civile, non li dimenticheranno mai.

La barricata Sant'Antonio era mostruosa; era alta tre piani e larga settecento piedi. Sbarrava da un angolo all'altro la vasta imboccatura del sobborgo, vale a dire tre vie. Franosa, frastagliata, dentellata, seghettata, scanalata da una immensa fenditura, rafforzata da contrafforti che erano altrettanti bastioni, con delle punte qua e là, potentemente addossata ai due grandi promontori di case del sobborgo, essa sorgeva come una costruzione ciclopica in fondo alla formidabile piazza che ha visto il 14 luglio. Altre diciannove barricate erano disposte nelle vie dietro quella barricata madre, la cui sola vista faceva capire che nel sobborgo l'immensa sofferenza era arrivata al punto estremo in cui un'angoscia sta per diventare una catastrofe. Di che era fatta quella barricata? Delle macerie di tre case a sei piani demolite apposta, dicevano alcuni. Del prodigio di tutte le collere, dicevano gli altri. Aveva il deplorevole aspetto di tutte le costruzioni dell'odio: la rovina. Si poteva chiedere: - Chi ha costruito questo? - e si poteva chiedere pure: - Chi ha distrutto questo? - Era l'improvvisazione della rivolta. Guarda:

quell'imposta, quel cancello, quel tavolato quello stipite, quel caldano rotto, quella marmitta fessa. Date tutto, buttate tutto!

spingete, rotolate, abbattete,smantellate,sconvolgete, rovesciate tutto. Era la collaborazione della pietra, della lastra, della trave, della sbarra di ferro, del cencio, del vetro infranto, della sedia spagliata, del torso di cavolo, dello strofinaccio, dello straccio e della maledizione. Era il grandioso e il meschino. Era l'abisso parodiato dalla confusione. Era la massa accanto all'atomo, il pezzo di muro divelto e la scodella infranta; una minacciosa fratellanza di tutti i rottami; Sisifo vi aveva gettato la sua roccia, Giobbe il suo coccio. Terribile, insomma. Era l'acropoli degli scalzacani. Alcuni carretti rovesciati frastagliavano la scarpata; un carrettone immenso era messo di traverso, con l'asse rivolta al cielo, e sembrava una ferita su quella facciata tumultuosa; un omnibus issato allegramente a forza di braccia in cima al cumulo, come se gli architetti di quella costruzione selvaggia avessero voluto aggiungere il monellesco al terribile, porgeva il timone a non si sapeva quali cavalli dell'aria. Quel gigantesco ammasso, quell'alluvione della sommossa faceva pensare a un gigantesco sovrapporsi di tutte le rivoluzioni; il '93 sull'89, il 9 termidoro sul 10 agosto, il 18 brumaio sul 21 gennaio, il vendemmiale sul pratile, il 1848 sul 1830. Il luogo ne valeva la pena, e quella barricata era degna di apparire nello stesso posto da cui era scomparsa la Bastiglia. Se l'oceano formasse delle dighe, le costruirebbe così. Su quel deforme affastellamento era impressa la furia dei flutti. Quali flutti? La folla. Pareva di vedere un tumulto pietrificato; pareva di sentir ronzare, al di sopra di quella barricata, come se avessero là il loro alveare, le enormi api tenebrose del progresso violento. Era una sterpaglia?

un baccanale? una fortezza? Sembrava costruita a colpi d'ala dalla vertigine. C'era qualcosa della cloaca in quella ridotta, e qualcosa di olimpico in quello scompiglio. Si vedevano in quel disordine pieno di disperazione travi di tetti, pezzi di mansarde con la loro tappezzeria di carta a colori, invetriate di finestre con tutti i vetri, piantate tra le macerie in attesa del cannone, fumaioli smantellati, armadi, tavole, banchi, una confusione urlante, e quelle mille miserabili cose, rifiuti dello stesso mendicante, che contengono insieme qualcosa di furibondo e di insignificante. Si sarebbe detto che fosse il cenciume d'un popolo, cenciume di legno, di ferro, di bronzo, di pietra e che il sobborgo Sant'Antonio lo avesse buttato là, alla sua porta, con una colossale scopa, formando con la sua miseria la sua barricata.

Massi simili a ceppi patibolari, catene spezzate, cavalletti di legno che parevano forche, ruote orizzontali sporgenti dalle macerie, aggiungevano a quell'edificio dell'anarchia la tetra immagine dei vecchi supplizi sofferti dal popolo. La barricata Sant'Antonio si faceva arma di tutto; tutto quello che la guerra civile può scagliare sul capo della società usciva da essa; non era un combattimento, ma un parossismo; le carabine che difendevano quella ridotta, e fra esse anche alcuni tromboni, lanciavano cocci di terraglia, ossicini e persino rotelline di comodini da notte: proiettili pericolosi per via del rame. Quella barricata era forsennata; lanciava nel cielo un clamore inesprimibile; in certi momenti, provocando l'esercito, si copriva di folla e di tempesta; una moltitudine di teste infiammate la coronava; un brulichio la riempiva; aveva una cresta spinosa di fucili, di sciabole, di bastoni, di scuri, di picche, di baionette; una grande bandiera rossa sbatteva al vento; vi si udivano grida di comando, canzoni di battaglia, rulli di tamburi, singhiozzi di donne, e le tenebrose risate dei morti di fame. Era smisurata e vivente; e da essa, come dal dorso d'un animale elettrico, usciva uno scoppiettio di fulmini. Il genio della rivoluzione copriva con la sua nube quella cima su cui brontolava quella voce di popolo che somigliava alla voce di Dio; una maestà strana emanava da quella titanica gerla di macerie. Era un mucchio di lordure ed era il Sinai.

Come abbiamo detto più su, essa assaliva in nome della Rivoluzione. Chi? la Rivoluzione. Quella barricata, ossia il caso, lo smarrimento, il malinteso, l'ignoto, aveva di fronte l'assemblea costituente, la sovranità del popolo, il suffragio universale, la nazione, la Repubblica; era la "Carmagnola" che sfidava la "Marsigliese".

Sfida insensata, ma eroica, poiché quel vecchio sobborgo è un eroe.

Il sobborgo e la sua ridotta si prestavano man forte: il sobborgo s'appoggiava alla ridotta, la ridotta si addossava al sobborgo. La vasta barricata si stendeva come una scogliera, contro la quale andava a infrangersi la strategia dei generali d'Africa. Le sue caverne, le sue escrescenze, le sue verruche, le sue gibbosità facevano le boccacce, per così dire, e ghignavano sotto il fumo.

La mitraglia svaniva nell'informe; le palle vi si affondavano, inghiottite, inabissate; le palle riuscivano solo a fare dei buchi; a che serve cannoneggiare il caos? E i reggimenti, abituati alle più selvagge visioni di guerra, guardavano con occhio inquieto quella ridotta che era come una bestia feroce, irsuta come un cinghiale, enorme come una montagna.

A un quarto di lega, dall'angolo della via del Tempio che sbocca sul boulevard presso lo Chateau d'Eau, se si sporgeva avidamente la testa fuori della punta formata dalla vetrina del magazzino Dallemagne, si scorgeva lontano, al di là del canale, nella via che sale le rampe di Belleville, al punto culminante della salita, una muraglia strana che giungeva al secondo piano della facciata, specie di tratto d'unione delle case di destra con quelle di sinistra, come se la via avesse ripiegato da sé il suo muro più alto per chiudersi bruscamente. Quel muro era fatto di selci, e si ergeva diritto, freddo, perpendicolare, livellato con la squadra, tirato con l'archipenzolo. Mancava il cemento, è vero, ma, come in certe costruzioni romane, la rigidità architettonica non era turbata. Dall'altezza se ne indovinava lo spessore. La sommità era matematicamente parallela alla base. A tratti sulla sua superficie grigia, si distinguevano delle feritoie quasi invisibili, che somigliavano a fili neri; erano separate le une dalle altre da spazi regolari. La via era deserta a perdita d'occhio; tutte le finestre e tutte le porte erano chiuse. In fondo si ergeva quello sbarramento che faceva della via un angiporto; muro immobile e tranquillo; non vi si vedeva nessuno, non vi si udiva nulla; non un grido, non un rumore, non un soffio. Un sepolcro.

L'accecante sole di giugno inondava di luce quella scena terribile.

Era la barricata del sobborgo del Tempio.

Appena giunti sul terreno e vedutala, era impossibile, anche ai più audaci, non diventare pensosi davanti a quell'apparizione misteriosa. Era aggiustata, incastrata, levigata, rettilinea, simmetrica e funebre. C'era la scienza e c'erano le tenebre. Si sentiva che il capo di quella barricata era un geometra o uno spettro. Guardandola si parlava sottovoce.

Se qualcuno, soldato, ufficiale o rappresentante del popolo, si arrischiava ad attraversare la via deserta, si udiva un sibilo acuto e leggero, e il passante cadeva ferito o morto, o se sfuggiva, si vedeva penetrare in una imposta chiusa, in una connessura di selci, nell'intonaco d'un muro una pallottola e qualche volta un biscaglino, poiché i difensori della barricata s'erano fatti due cannoncini con due tubi di ferro del gas, chiusi a un'estremità con argilla e stoppa. Non facevano spreco inutile di polvere. Quasi tutti i colpi andavano a segno. C'erano qua e là dei cadaveri, e pozze di sangue sul lastricato. Mi ricordo d'una farfalla che svolazzava su e giù per la via. L'estate non abdica mai.

Nei dintorni, gli androni, erano ingombri di feriti.

Si era sorvegliati da qualcuno che restava invisibile e si capiva che tutta la strada era presa di mira.

I soldati della colonna d'assalto, ammassati dietro quella specie di schiena d'asino formata dal ponte del canale all'ingresso del sobborgo del Tempio, osservavano gravi e pensosi quella lugubre ridotta, quella immobilità, quella impassibilità, da cui veniva la morte. Alcuni strisciavano col ventre a terra fino alla curva del ponte, attenti a non mostrare il loro chepì.

Il valoroso colonnello Monteynard ammirava fremendo quella barricata. - "Com'è costruita bene!" - diceva a un deputato. "Non un ciottolo che sporga; sembra di porcellana". - In quel momento una palla gli spezzò la croce sul petto e cadde.

- Vili! - dicevano. - Ma si mostrino dunque! si lascino vedere!

non osano, si nascondono! - La barricata del sobborgo del Tempio, difesa da ottanta uomini, assalita da diecimila, resistette tre giorni. Al quarto si fece come a Zaatcha e a Costantina, si fecero delle brecce nelle case, si calarono dai tetti, e la barricata fu presa. Neppure uno degli ottanta vili pensò di fuggire; furono uccisi tutti, eccetto il capo, Barthélemy, di cui parleremo tra breve.

La barricata Sant'Antonio era il rombo dei tuoni, quella del Tempio il silenzio: c'era tra queste due ridotte la differenza che esiste tra il formidabile e il sinistro; l'una sembrava una gola, l'altra una maschera.

Ammesso che la gigantesca e tenebrosa insurrezione del giugno fosse composta d'una collera e d'un enigma, nella prima barricata si sentiva il drago e dietro la seconda la sfinge.

Queste due fortezze erano state costruite da due uomini chiamati l'uno Cournet, l'altro Barthélémy: Cournet aveva fatto la barricata Sant'Antonio, Barthélémy quella del Tempio, e ognuna era l'immagine del suo artefice.

Cournet era di alta statura, con le spalle larghe, la faccia rubiconda, il pugno robusto, il cuore ardimentoso, l'anima leale, l'occhio sincero e terribile. Intrepido, energico, irascibile, tempestoso; l'uomo più cordiale, il più formidabile combattente.

La guerra, la lotta, la mischia erano la sua aria respirabile e lo mettevano di buon umore. Era stato ufficiale di marina, e dal gesto e dalla voce s'indovinava che usciva dall'oceano e veniva dalla tempesta; continuava la burrasca nella battaglia. Tranne il genio, c'era in Cournet qualcosa di Danton, come, tranne la divinità, c'era in Danton qualcosa di Ercole.

Barthélémy, magro, sparuto, pallido, taciturno era una specie di monello tragico che, schiaffeggiato da una guardia di polizia, l'attese, l'uccise, e a diciassette anni fu mandato in galera.

Quando ne uscì, costruì quella barricata.

Più tardi, cosa fatale, a Londra, proscritti tutti e due, Barthélémy uccise Cournet. Fu un duello funebre. Qualche tempo dopo, preso nell'ingranaggio d'una di quelle misteriose avventure in cui vi si immischia la passione, catastrofi nelle quali la giustizia francese vede delle circostanze attenuanti e l'inglese vede solo la morte, Barthélémy fu impiccato. Il tetro edificio sociale è così fatto che, grazie alle privazioni materiali e all'oscurità morale, quell'essere sventurato che conteneva un'intelligenza certamente solida, forse grande, cominciò col bagno in Francia e finì con la forca in Inghilterra. Barthélémy, in tutte le occasioni, innalzava una sola bandiera: quella nera.