Anno 1 Numero 38 Del 10 - 11 - 2008
La “scena” televisiva
Una conversazione con Enrico Ghezzi

Mariateresa Surianello
 

Se uno scarto c’è stato, nella televisione italiana del servizio pubblico, è facile da individuare. Se si è creata una zona di resistenza alla deriva televisiva dell’ultimo ventennio, e forse ormai di più, uno degli artefici è certo Enrico Ghezzi. Icona delle notti di Rai Tre con Fuori orario, Ghezzi ha i tratti dell’anti-divo, nella sua veste, non proprio ordinaria, di lavoratore infaticabile e gentile. Divoratore e dispensatore di immagini in sequenze debordiane, tiratore di Schegge perdute, inventore di quel formato riproducibile quotidianamente, Blob, e utile a elaborare e rilanciare frammenti recuperati dalla stessa tv, come dal suo pattume, e/o preziosi inediti ripresi nei luoghi più reconditi ma sensibili del pianeta, fino a produrre una “sintesi oggettiva” della giornata, vera striscia di informazione, spesso più utile di tutte le edizioni dei tg, con Enrico Ghezzi abbiamo provato a parlare del grande assente in televisione, il teatro.

 

Nelle scarse occasioni in cui il teatro compare in televisione (con poche eccezionalità), si percepisce una sorta di sottomissione dei linguaggi della scena a quelli della televisione. E’ così? Il teatro è stato definitivamente inglobato nel visivo televisivo?

No, se fosse stato inglobato ci sarebbe un lavoro maggiore. Trovo che purtroppo, semplicemente, non c’è né da una parte, né dall’altra una diramazione del teatro nella televisione. Non credo minimamente nella traduzione da un linguaggio a un altro, né da una scena all’altra - perché quella televisiva è comunque una scena – e ancora meno credo nella pubblicità, nella televisione come cinghia di trasmissione. O meglio, so bene che è così, la televisione fa al novanta per cento pubblicità in quello che trasmette, dai talk show... qualunque cosa passi in realtà pubblicizza qualcos’altro.

Il video più che la televisione è importante e affascinante, anche come mezzo di registrazione e di conservazione di tracce di eventi teatrali, grandi e piccoli, del resto, di qualunque cosa. Come il video e la televisione avrebbero potuto essere e non sono stati - ormai colpevolmente per almeno cinquant’anni in tutto l’Occidente, ma anche di più - una sorta di archivio permanente. Non necessariamente sarebbero dovuti andare in onda, ma di cose di ogni genere, anche semplicemente, sistematicamente registrare le voci degli anziani, non solo gli eminenti in ogni campo. Anche semplicemente registrare. E in questo, anche il teatro, non meno e non più, avrebbe avuto il suo senso.

 

Recentemente, si è iniziato a registrare il teatro, a documentarlo.

Sì, però, quando si parla di teatro in televisione, cioè di spettacoli registrati, spesso ben registrati o a volte ben registrati, a volte registrati dagli stessi registi che hanno fatto la cosa in teatro, a volte da altri, alcuni anche più bravi, più intelligenti, più televisivi. Alla fine mi sembra che sia una sorta di piccolo passo dovuto, di piccolo tributo. Perché nel caso della televisione in Italia, della Rai, delle emittenze pubbliche, rientra nelle piccole eccezione. Come nelle finanziarie, ci sono dei budget e poi c’è un piccolo budget su Rai Due per il teatro e un altro per la musica, la notte, da un’altra parte. Ma in effetti essendo tutti degli spazi residuali sono quasi razzistici, anche quando hanno un senso – lo ribadisco - come certificato di esistenza e in qualche modo di pubblicità.

Allora è evidente che una cosa di teatro potrebbe essere per esempio un canale intero, adesso che si parla di digitale, di canali a pagamento. Non è una soluzione, io non credo che sia un problema il teatro in tv. Nulla è un problema. Semplicemente bisogna un po’ inventare le cose. Anche lì se c’è un canale intero e si limita a utilizzare vecchio repertorio e nuovo repertorio di documentazione di spettacoli e sicuramente interessante per un pubblico settoriale, può servire a imparare delle cose del teatro passato e di quello contemporaneo. Quello che secondo me manca e manca da sempre, anche se un tempo con il monopolio più ferreo Rai potevano esserci occasioni importanti, basta pensare agli esordi di Ronconi, legate comunque a personalità particolari, che comunque avrebbero fatto cose inventive.

Io credo che la televisione per il modo che è, per la forma che è sia stata pochissimo, ahimè, usata non tanto – ripeto - come diramazione e transizione, ma come ulteriore set teatrale. Come il telefono. Se pensiamo una cosa che a noi ci venire in mente uno spettacolo è il telefono. E, invece, noi lo vediamo, in radio o in televisione, il telefono è il vero cambiamento di scala, è una zona di teatro quotidiano, una soap quotidiana. E’ un genere televisivo, teatrale e quasi cinematografico che sta lì, radiofonico, che sta lì, che ha altri fini, ma che ognuno di noi sa benissimo essere anche parte principale del teatro quotidiano della nostra vita. E’ poco lavorato sia dal teatro, sia dalla televisione, molto meno di quello che potrebbe.

Il teatro lo trovo un problema davvero residuale, esperiale. Quindi bisogna semplicemente da una parte avere un sano sindacalismo e riformismo, un tentativo timido di ottenere risorse e poi farne un uso ottimale. Però è difensivo, è solo per esistere in mezzo a tante altre cose, dalla musica sinfonica..., parlando di televisione generalista. Lo stesso nelle televisioni via cavo avere i vari scaffali. La vera invenzione teatrale sarebbe pensare teatro, non necessariamente con testi nuovi, non vanno inventati i testi, ma pensare a messe in scene televisive, che si confrontino con la forma, col volto televisivo, con la possibilità di interattività o di connessione che è quella televisiva, anche a partire dai vecchi testi. La ripresa pari pari di uno spettacolo sublime, vale solo per uno spettacolo sublime, di Ronconi, di un Cecchi straodinario o anche uno Straub che fa il teatro a Buti, lo riprendi anche frontalmente, anzi meglio frontalmente che non la scansione banalissima della regia televisiva e hai una cosa lontanissima dal teatro, è lo spettro del teatro. Che poi, senza essere pensato, è quello che avviene normalmente.

 

Altra cosa è stato il teatro in televisione di Eduardo, che erano proprio regie televisive e che molto hanno contribuito alla grande fortuna di quel teatro.

Lì la maggiore attrazione era lui, e comunque era imperniato. Se invece pensiamo a Ronconi, al suo spettacolo più straordinario, in qualche modo smaccatamente televisivo, perché la non visibilità integrale del suo Orlando Fusioso era proprio dovuta alla pluralità di set in uno stesso set. Il dover scegliere, fu uno spettacolo che non si sarebbe mai visto intero. In qualche modo anticipava, o meglio usava – perché c’erano già in vari Paesi - la pluralità di canali. Utilizzava questo parallelismo no-stop delle scene televisive

non è un caso che quando ha fatto – pur essendo in periodo di monopolio, quindi teoricamente sarebbe stato pensabile – quando ha fatto l’Orlando Furioso per la televisione ha fatto un film magnifico, sontuoso, uno scacco. Tanto lo spettacolo era innovativo, quanto il film era un film sull’impossibilità di osare una cosa tale in televisione che pure era il set più adatto per fare questo.

Probabilmente era troppo facile farlo in televisione e troppo difficile perché mai la Rai avrebbe concesso tre reti, anche solo per due ore. Era politicamente difficile, ma tecnicamente, teatralmente, poeticamente troppo facile, perché è già così la televisione, devi comunque scegliere in un parallelismo che non è mai preordinato. Poteva avvenire con Gli ultimi giorni dell’umanità, io lo proposi all’epoca di fare una cosa su due-tre reti a notte fonda, quando comunque non avrebbe dato fastidio a nessuno. Però non si fece.

 

Qual è stato il motivo di questa assenza quasi totale del teatro dalla televisione, anche per quanto riguarda la comunicazione (prima parlavi di pubblicità) spicciola di quanto accade nei teatri sparsi sul territorio?

Noi a Rai Tre con Guglielmi ce lo eravamo posto e onestamente non ci interessava per niente la cosiddetta traduzione dei linguaggi, portare in televisione la musica colta..., tutte le cose che ci piacciono, allora perché non i quadri. Allora, salvo schegge, cose fulminee, provocatoriamente insufficienti, inadatte, che forse avrebbero potuto e dovuto far sentire proprio l’insoddisfazione di questo, l’altra possibilità era ed è quella che alcune personalità teatrali o alcune situazioni teatrali, sicure di perdere la fragranza del teatro - in televisione la perderesti comunque, puoi avere la fragranza di un elemento del teatro... Secondo me Pippo Delbono, nonostante le sue belle musiche le sue situazioni magiche è molto più televisivo che teatrale. Non ha nessun bisogno della scena teatrale. Dovrebbe inventare televisione molto più che un film, che finirà per fare. E’ questa la cosa che puoi fare, puoi dare per un giorno la regia del telegiornale a un grande regista teatrale italiano.

Uno che fa teatro oggi, vedendo la televisione asfittica e ormai priva di qualunque intenzionalità editoriale che ha tutta la televisione, non solo quella italiana, in qualche modo la televisione mondiale. Non ci sono eccezioni, le eccezioni sono singoli programmi e quindi non fanno parte di accenzioni editoriali. Rispetto a questo, situazioni di teatro, personalità di teatro, idee teatrali, non trasposte in televisione, ma che aggrediscano la televisione – si permetta questo - che tanto tutto sopporta fin troppo bene. Ogni tanto ci sono dei programmi che tu guardi esattamente come guarderesti il teatro, nel senso che ti perdi sui dettagli, su una sorta di cifra nella tela che si tesse nel pomeriggio, nella serata. In realtà segui il teatro. Tutti i talk show hanno un senso teatrale, perché per il resto sono orribile televisione, crudelissimo gioco a eliminazione, dove si vede che poi uno comincia a contare il tempo che gli rimane per intervenire. E’ osceno da ogni punto di vista, di cosiddetto contenuto, di messaggio da veicolare. L’unico elemento interessante è una sorta di set teatrale, una sorta di teatrino-teatrone. La televisione è eminentemente teatrale, è molto più vicina al teatro che al cinema. La televisione è già una sintesi di teatro e cinema.

 

Quindi se voi non lo avete fatto il teatro, il motivo è stato la mancanza di risorse?

Se vuoi dire noi di Rai Tre, abbiamo deciso semplicemente di non aderire alle richieste più o meno pressanti... Poi nei programmi andavano ospiti... l’esempio straordinario di teatro in televisione è Carmelo Bene, una personalità unica, eccezionale a dire poco. Ha fatto televisione che non era ripresa dei suoi spettacoli. Ha fatto altre cose, compresi gli Amleti – uno al cinema, diverse volte a teatro e due volte almeno in televisione. E poi ha fatto le sue apparizioni televisive che erano straordinario teatro sia che parlasse di calcio da Biscardi, sia le due serate da Costanzo. Quello era un momento di straordinario teatro, non direi di particolare televisione. Qualcosa che sbaragliava quasi la televisione.

 

Cosa rappresenta l’esposizione del proprio corpo dentro la cornice televisiva?

E’ una cosa molto diversa dal cinema. E’ sempre divismo, microdivismo diffuso, ma è molto vicina alla prossimità teatrale, quella dei mezzibusti, delle persone correntemente in televisione. Questa sorta di doppia vita. E’ molto vicina alla conoscenza, al cameratismo, addirittura, alla complicità che c’è tra pubblico e teatranti, il teatro si regge abbastanza su questo. Raramente sulla folgorazione dell’estraneo e dello ieraticamente lontano... Grotowski o straordinarie distanze, ma per il resto si regge su questo. Io lo trovo molto vicino alla televisione il teatro. E’ proprio il rituale del teatro. Mentre il cinema è inevitabilmente architettonico, è una sorta di passaggio continuo tra l’architettura da una parte e la pittura, se vuoi, dall’altra. Invece, il teatro è molto più vicino alla televisione. Il teatro che rimane è costretto molto più del cinema, delle mostre, dei concerti, delle altre arti a difendersi, a essere altra cosa. Dovrebbe essere infinitamente altra cosa per questo dovrebbe temere la televisione, perché la televisione è eminentemente teatrale. La televisione è la scena teatrale dell’ultimo secolo.

 

Nelle tue apparizioni sfalsi i piani di esposizione – dal fuori sinc al flusso gestuale – e procedi per accumulo. Crei proprio una performance che va a scardinare la semplicità del linguaggio televisivo, quello a cui siamo abituati, naturalmente. Perché invece di lavorare in sottrazione, tenti di alimentare e di trasmettere la tua complessità?

E’ una sottrazione anche questa, perché è una cosa talmente semplice, talmente minimale, talmente banale e riconoscibile a suo modo... Lì non è un problema di teatro, è proprio di sottrazione rispetto, non al banale televisivo, ma alla comunicazione in quanto immediatezza fasulla, facile che dovrebbe essere o misterica e anche critica rispetto alla propria mistericità immediata enigmatica, oppure non può che essere critica rispetto all’ideologia della diretta, all’ideologia dell’immediatezza. Al fatto che anche le persone più intelligenti e geniali quando vanno in televisione, improvvisamente, si dimettono da ogni soggettività e imparano a parlare. E infatti poi torneranno quelli che saranno selezionati per la loro capacità di parlare e di dire in un minuto quello che potrebbero dire meglio in tre minuti. Slogan, anche belli, intelligenti, però chiaramente sono continui tradimenti, continue traduzioni, ma a quale fine? Al fine di ritornare, di ripetere la presenza. E’ terrificante sacrificare alla comunicazione... la televisione non ha bisogno del nostro obolo, della nostra aggiunta, del nostro granellino... L’eventuale successo che possono avere avuto alcune mie idee o programmi sono molto felice di usarlo poi in senso opposto, come un intralcio, come anche un fastidio. Ho incontrato in treno un teatrante che mi ha fermato e mi ha detto: “Io apprezzo molto la sua danza”. Mi ha divertito, mi ha sconcertato. Comunque, la televisione credo sia un luogo straordinario per verificare la tensione tra essere e non essere e tra essere e riessere. Che sarà prima o poi questo Amleto che devo fare.