Gli attori di
Gli attori di "Neva"
Una immagine dalla protesta degli studenti
Una immagine dalla protesta degli studenti

Anno 1 Numero 36 Del 26 - 10 - 2008
Ottobre
Digressioni su un autunno quasi primaverile

Attilio Scarpellini
 
Wozu Dichter in dürftiger Zeit – a che servono i poeti in tempi di povertà?
Hölderlin
 
Se qualcuno vuole porsi la questione: è ancora possibile un teatro politico? Guillermo Caldéron non è la persona giusta per rispondere. Con Neva, il suo concentrato kammerspiel che ha toccato terra anche in Italia (dalle Vie di Modena ha fatto tappa al Teatro Nuovo di Napoli e poi al Teatro India di Roma), il trentacinquenne regista cileno si pone la domanda dimaetralmente opposta: è ancora possibile barricarsi in un teatro, magari a provare Il giardino dei ciliegi, mentre fuori impazzano la guerra e la crisi? Nella commedia di Cechov il rumore sordo di una scure fuori di scena segnalava l'inizio delle fine. In Neva è una luce che si spegne a sprofondare la scena nel buio e a riconsegnare il teatro a ciò che è fuori da lui. E tuttavia, Caldéron non fa teatro politico nel senso referenziale del termine: traducendo sulla scena la domanda e non la risposta, fa un teatro esposto alla Storia. Issati su un parallelepipedo scontornato nel vuoto, disponendo soltanto di una poltrona e di una stufa-lanterna che li illumina dal basso , Olga, Masha ed Aleka (cioè Trinidad Gonzales, Paula Zuinga e Jorge Becker), i tre attori di Neva chiusi in un teatrino di San Pietroburgo sono effettivamente intenti a “provare”, e non solo Il giardino dei ciliegi. Sotto la guida tormentata di Olga Knipper , attrice di culto del Teatro d'arte di Mosca e soprattutto vedova di Cechov, provano il desiderio, l'amore e persino, cercando di rievocare gli ultimi istanti dello scrittore russo, provano a rappresentare quel che per definizione non può essere rappresentato, cioè la morte:  tre frontiere che, respingendo l'illusione teatrale su se stessa, innescano un  transfert delirante che allo spettatore si presenta nella forma icastica, a un tempo confusa e fatale, che hanno certi sogni. Con la differenza che questo gioco di corpi intenti a fuggire e a riscrivere in finzione la propria identità è continuamente perforato da una parola lucida, inaggirabile, che lo stringe d'assedio. Siamo nel 1905 e le immagini della domenica di sangue in cui la truppa zarista decima i rivoltosi guidati da padre Gapon, in quello che sarà il prologo dell'ottobre rivoluzionario, tracimano dalle rive della Neva anche oltre le mura dei teatri. L'evento rompe ed irrompe ma la scrittura di Caldéron non lo usa come un'interruzione moralistica, bensì come un rilancio profetico del vortice che domina la scena, a testimonianza che anche le rivoluzioni (soprattutto loro) sono fatte della stessa fragile materia di cui sono fatti i sogni. Se il teatro mente, insomma, la Storia non mente di meno. In compenso tradisce di più: e così il giovane Aleka, nel suo controcanto tolstojano alle speranze militanti di Masha, si ritrova a declinare  il futuro di una Russia che riuscirà a lanciare cagnette nello spazio ma non a riportare la giustizia sulla terra. Intersecato da brani cecoviani, superbamente interpretato da tre attori che con la voce ed il corpo suturano ogni stacco tra i piani del testo, nel suo spagnolo che accelera e verticalizza la temperie russa della pièce, Neva riesce a far risuonare parole che credevamo sepolte sotto le macerie della retorica. Una di esse, rivoluzione, unisce due suoni contrapposti: il suono puro, necessario, della giustizia che di fronte al potere esige soltanto giustizia; il suono altero e tragico della giustizia che vuole prendere il potere. Il suono del 1905 e quello del 1917. 

E’ un azzardo sostenere che questi due suoni lontani, esiliati nella grandezza e nella miseria del secolo scorso, si stiano precipitosamente riavvicinando al nostro tempo, nel momento in cui la Gerico del capitalismo globale implode sotto l’ultrasuono della sua illusione? Basta uscire dai teatri e alzare gli occhi sullo strano ottobre degli studenti italiani per capire che almeno l’allusione non è poi così azzardata: questa rivolta che secondo alcuni sarebbe prepolitica – e dunque necessaria – vorrebbe parlare ai padri (che sovente si porta appresso sul terreno della lotta) così come quella di quaranta anni fa voleva tagliare i ponti con loro o simbolicamente ucciderli. E’ un rovesciamento dell’ispirazione anti-autoritaria del 1968, come vorrebbero i fascisti? No, è un suo compimento, attraverso il tentativo – ingenuo quanto si vuole, ma effettivo – di separare autorità e potere, il diritto dal mero fatto (di cui anche la legge positiva fa parte), su un piano che il potere vigente ostenta, non a caso, di misconoscere del tutto. Da ogni parte, infatti, si finisce con l’accusare i partecipanti a questa sorta di crociata dei bambini di un peccato che il Novecento ha reso inespiabile: in una società iperrealista sarebbero degli irrealisti che nella loro testarda estraneità al potere – tradotta tout court in estraneità alla mediazione politica e alla titolarità della rappresentanza – riproducono le contraddizioni insanabili di quella che Hegel chiamava con sprezzo “anima bella”. Uno dei pochi criteri a cui rispondono, ad esempio, è un’acuta reattività morale: indignati perché il premier li ha definiti dei “fannulloni” gli studenti di un liceo romano si sono rinchiusi nelle aule per fare lezione, elevando, come avrebbe voluto Pasolini, l’obbedienza a forma di protesta; feriti dalla minaccia berlusconiana di inviare la polizia a disinfestare scuole ed atenei, gli studenti dell’Università di Torino hanno risposto con piglio ottocentesco “che vengano…” come se la politica italiana potesse essere all’altezza di Victor Hugo. Figli ormai integrali di una percezione virtuale, ipod in un orecchio e cellulare nell’altro, si sono presi la libertà inusitata (per loro molto più di quanto non sia stata mai per noi) di reinventare lo spazio cittadino a partire dalla brusca interruzione di ciò che maggiormente lo condiziona e lo plasma: il tempo. Una città rallentata, non solo nelle sue dorsali centrali, ma quartiere per quartiere, scuola per scuola, si è vista costretta a passo d’uomo dietro piccoli o grandi drappelli di ragazzi. Il tempo, per cominciare: nello spazio che si dilata sotto il passo del marciatore, mentre l’orizzonte si riapre (fare un corteo è un modo per vedere la città), il tempo si riconverte dall’esterno all’interno, tornando ad essere scandito dal respiro del soggetto. Il tempo per cominciare: il primo giorno della rivoluzione del 1848, verso sera, alcuni testimoni segnalavano che gli orologi pubblici della città di Parigi erano l’oggetto di un accanito tiro al bersaglio…

The time is out of joint, il tempo per cominciare: è di questo che tratterà un’ arte in tempo di crisi (wozu Dichter in dürtftiger Zeit), del tempo non dell’immagine, se non come immagine aperta sull’evento, ferita dal tempo. E’ il tempo a riaprire il discorso della rappresentazione in Neva, a porre il problema: dove siamo (e chi siamo) quando facciamo dell’arte? Dove siamo (e chi siamo) nel momento di trasformare il nostro corpo in segno separandolo dal presente della nostra storicità e raddoppiando la scena, il tempo del mondo? Siamo su uno sperone, indicava assai visibilmente l’essenziale scenografia del drammaturgo cileno, su un balcone acceso nel cuore della notte che la notte è destinata ad inghiottire: affacciati sull'imminenza del nostro fallimento. Il teatro non può essere un altro tempo e un altro mondo, ma neanche il riflesso di questo tempo e di questo mondo: ora che l’estetizzazione della vita vede franare rovinosamente le proprie quotazioni, la risposta non può trovarsi in una politicizzazione dell’arte che all’autoreferenzialità del segno opponga la brutale trasparenza dei significati. Bisogna continuare a rappresentare – sembra suggerire Caldéron e anche, aggingerei, a rappresentare Il giardino dei ciliegi – nel momento in cui il presente sfonda il recinto del giardino, e la scure comincia a tagliare il bosco, ma facendo deragliare la rappresentazione in un’agonia, se non in una dialettica, con quella che in fondo non è la mera realtà ma già la sua doppiezza (sia ben inteso che questo Cechov l’ha già fatto). Il segno – o il sogno – è intriso del sangue del tempo: la forma si apre, vacilla nella possibilità di un’altra incarnazione, cioè dell’ennesima caduta. Ma d’altro canto bisognerà pur ammettere che solo nella forma può determinarsi un rilancio poetico del reale. Che trapassata dal presente, l’arte si porrà sempre in uno scarto, in un ritardo, in un anacronismo rispetto al mondo, poiché questa è la condizione della sua (e di ogni altra) profezia. Il contemporaneo, nel frattempo, ci sta già alle spalle.