Un militare nelle strade di Napoli
Un militare nelle strade di Napoli
Una copertina del Manifesto
Una copertina del Manifesto

Anno 1 Numero 33 Del 6 - 10 - 2008
Il ciclo delle stagioni
Come si abbattono le colonne portanti di una egemonia culturale e si eleva la vuota propaganda di un nuovo corso

Attilio Scarpellini
 
Hanno mandato dei ragazzi vestiti da soldati,  come li definisce Lanfranco Caminiti nell’ultimo numero della sua Repubblica romana, a pattugliare le nostre città. A Roma li si incontra nelle stazioni urbane, vagolano con le loro facce esitanti, indecise se restare timide, Italiani brava gente, o mostrarsi feroci come al check-point di una città mediorientale. Li hanno mandati perché i loro volti impauriti ci ispirino ancora più paura di quella da cui l’inesperienza delle loro armi dovrebbe difenderci. Li hanno mandati perché la paura è un linguaggio e la politica della sicurezza è una messa in scena circolare della paura. Ma li hanno ringraziati in anticipo sui manifesti perché la politica è una messa in scena dove vince chi si rappresenta meglio e prima. Scompare l’immondizia a Napoli, appaiono i soldati in città, il degrado e l’insicurezza vengono abbattuti col colpo di bacchetta magica della propaganda dimostrando in tal modo che la decenza e la sicurezza –  come i più onesti o forse solo i più ingenui dei nostri governanti vanno ripetendo da tempo – non sono cose ma per l’appunto rappresentazioni, percezioni di un’ottica che alle sensazioni reali  sovrappone le passioni indotte. E una rappresentazione non può essere rimpiazzata che da un’altra rappresentazione: il valore della parola “discontinuità” nelle politiche attuali si misura tutto su questo precipitoso, gesticolante cambio di scena dove una finzione è scacciata da un’altra finzione che occupa il posto lasciato stabilmente vuoto dalla parola realtà. Soldati nelle strade, maestra unica nelle scuole, economia manifatturiera, lotta alla prostituzione, Dio-Patria-Famiglia: il vintage ideologico del governo Berlusconi è quasi interamente costituito da ritorni di immagine dell’Italia anni cinquanta e sessanta, è un cinema di valori restaurati proiettato sul muro della crisi per offuscare la desolazione delle sue crepe. Di molto reale – di quasi volgarmente reale – la commedia del ritorno all’ordine ha invece la sua prassi: e la prassi è quella, antica di sovranità, della tabula rasa. Ai tempi più euforici del suo potere, la destra italiana si era dimostrata incapace di esercitare quella che Antonio Gramsci chiamava un’egemonia culturale. Oggi appare seriamente intenzionata a plasmare una società a immagine e somiglianza di un dominio incontrastato che, secondo i suoi stessi auspici, dovrebbe attestarsi sul 60% dei consensi elettorali. Per farlo la discontinuità con il passato deve essere definitiva e senza ritorno.

Il premier non ha mai molto amato la stampa, medium troppo “caldo”, come avrebbe detto McLuhan, e dotato di un’articolazione linguistica eccessiva per un potere che ha scommesso tutto sulla propria iconizzazione: i recenti provvedimenti stabiliti dalla Finanziaria in materia di finanziamento statale ai giornali politici e a quelli (come il manifesto) editi da cooperative sembrano il corollario simbolico dell’idiosincrasia berlusconiana per la parola scritta e per la dimensione pubblica del confronto politico. Ma sono anche qualcosa in più: una negligente spallata contro minoranze di opinione che mal si adattano a quel bipolarismo asimmetrico che dovrebbe diventare il pensiero unico dell’Italia del futuro. Sul fondo di un provvedimento che toglie allo stato le risorse per garantire un’informazione plurale e non concentrata esclusivamente nei grandi gruppi editoriali, ma consegna al governo una specie di deroga verso le testate meritevoli, è iscritta l’idea che le minoranze (e i piccoli giornali di opinione rappresentano una doppia minoranza: minoranza tra i giornali e nella gerarchia dei media), siano non solo fastidiose ma colpevolmente vane. A dimostrarlo, come in un teorema, basta la loro incapacità a navigare sul mercato, la scarsità numerica su cui ogni qualità è destinata a naufragare o peggio ancora a essere relegata in una malinconica dimensione di tutela. Lo strumento finanziario ha il compito di rendere oggettiva e necessaria una percezione che, al contrario, è smaccatamente ideologica, e non solo nel caso della stampa, ma in quello della scuola – dove è lo stesso Berlusconi a stabilire la virtuosità del congelamento del turn over – e più in generale in quell’area mai troppo definita dove ricadono le espressioni dell’arte e della cultura: dal taglio al Fondo Unico dello Spettacolo alla rottura del patto Stato-regioni, dalle offensive contro la stampa a quelle contro il sapere, ogni restringimento di una già misera base produttiva funziona nei fatti come una vendetta contro categorie sociali riottose e in eccedenza ma  viene presentato a parole come un gesto necessario a contrastare un regime di assistenzialismo e di spreco. Mai il peso del denaro pubblico ha così tanto suonato come una forma di giudizio – e di giudizio ultimo - quanto in era tremontiana, mai l’economia ha fatto così luogo di cultura e di morale tanto dall’indurre il sospetto che sia in atto una sostituzione simbolica in cui la produzione esaurisce in sé ogni ambito di creazione.

Al di là della costanziana Casa della Cultura (leggi l’articolo  a riguardo su scenarindipendenti.it) e alla scaltra unione tra il mediatico e il popolare che la istituisce, al di fuori delle idiosincrasie estetiche del Ministro Bondi (e  al netto dei clientes che già si assiepano sotto i gradini del trono), non è dato sapere quali scelte positive di politica culturale suggelleranno la nuova egemonia. Quel che si distrugge, per il momento, è molto più significativo di quel che eventualmente si intende costruire. L’importante è proclamare che “la festa è finita”: la giunta romana, dal suo cruciale laboratorio, lo ripete ogni giorno persino a rischio di trasformare la sua subalternità psicologica al veltronismo in un caso da analizzare sul lettino dello psicoanalista (junghiano, non freudiano: per ovvie esigenze di discontinuità).

Di certo, nelle città che si ritirano in se stesse guardate a vista dai militari-bambini, lo spazio che l’arte rendeva più pubblico è già sottoposto in pectore a un nuovo movimento di privatizzazione, il più cupo che si possa immaginare. Altrettanto certamente, la pochezza delle politiche preesistenti e la debolezza della cultura italiana – la sua incapacità di produrre “rabbia”, come diceva Pasolini, e non conformismo, dissenso e non consenso – rendono clamorosamente facile la pratica della tabula rasa. Il piccolo grande caso del Teatro del Lido a Roma (leggi l’articolo a riguardo su scenarindipendenti.it), dove si chiude con un ukaze una delle poche vere esperienze di integrazione tra l’arte e il territorio, dimostra già adesso chi di questa debolezza è chiamato  a pagare il prezzo.