Un'immagine dal film
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Miloud Oukili, il clown che ha dato vita alla storia che il film racconta
Miloud Oukili, il clown che ha dato vita alla storia che il film racconta

Anno 1 Numero 32 Del 29 - 9 - 2008
Il sottosuolo dell’anima
In “Parada” di Marco Pontecorvo il ritratto di una città che ne schiaccia un’altra

Gian Maria Tosatti
 
A New York ci sono la Uptown e la Downtown. A Bucarest anche. La differenza sta solo nel fatto che in occidente il sopra e il sotto sono intesi in senso orizzontale (rispetto all’orientamento dell’isola di Manhattan), mentre al di là di una “cortina di ferro” che non è ancora veramente caduta, il concetto è da intendersi in senso verticale. Di sopra c’è la rete stradale e di sotto quella fognaria, dove vivono migliaia di bambini abbandonati dai genitori dopo essere fruttati i pochi soldi del “bonus bebè” ai tempi di Ceausescu. Ci sono arrivati fuggendo da luoghi ancora peggiori, da orfanotrofi di concentramento, da famiglie violente. 

Questo spaccato – o meglio questa “sezione” terrestre - è lo sfondo su cui si disegna il racconto cinematografico di Marco Pontecorvo, Parada, che sembra tracciato con un pastello a cera su un pezzo di cartone trovato nella spazzatura - come la scritta nella locandina -, che sembra una favola e invece non lo è. La storia è vera e narra il viaggio di un giovane clown franco-algerino, Miloud, arrivato in Romania, all’inizio dello scorso decennio, per amore della libertà e rimastoci più del previsto per provare a costruire una delicatissima scala tra le due città. Su di essa, uno dopo l’altro i bambini di strada si arrampicheranno fino ad uscire definitivamente da quel limbo crudele e geloso che è il sottosuolo della città e dell’anima al contempo.

Ed, infatti, il rapporto tra libertà e condanna sta tutta in una metafora topografica. Come in Underground di Kusturica, anche qui chi sta sotto terra è ostaggio dell’incubo di qualcun altro, di qualcuno che si muove alla luce del sole colpevolmente consapevole delle proprie responsabilità. Sono gli uomini che pagano pochi spiccioli per abusare delle ragazzine, sono i genitori irresponsabili, sono i poliziotti che esercitano il loro potere contro i diritti umani, i criminali che guadagnano sulla pelle degli orfani, ma sono anche tutti quelli che passano senza farsi domande davanti a panorami desolanti di disagio come quello reale che campeggerà sui titoli di coda. Tra gli abitanti della superficie c’è anche però chi, come Miloud, cercherà di fare qualcosa di concreto che va al di là della pietà. Il suo è un dialogo basato sull’insegnamento di una pratica che si fa senso e rapisce i giovani protagonisti fino a fargli invertire rotta, fino a fargli desiderare una vita possibile attraverso l’arte del circo. Da qui viene Parada, nato prima come uno spettacolo con protagonisti quegli stessi bambini di cui si seguono i travagli nel film, e divenuto poi una fondazione estremamente attiva nel recupero del disagio infantile (www.parada.it).

In questa pellicola, dunque, c’è in gioco molto di più di una storia da raccontare. La scelta che fa Pontecorvo è assai più sofisticata di quanto possa sembrare ad un primo sguardo. Il ragionamento parte non tanto dalla vicenda di Miloud, ma da ciò che quella storia rappresenta da un punto di vista linguistico. Le sue caratteristiche sono, infatti, quelle della fabula che, come parente più prossima del mito, si pone come meta-racconto e va a sovrapporsi alle traiettorie quotidiane di ogni singolo spettatore, assolutizzandosi.
Perché tale effetto emerga con chiarezza lo sfondo frastagliato della Bucarest dei boskettari (così sono chiamati i bambini di strada) è ideale per prendere una certa distanza dalla realtà mimetica di casa nostra e poter osservare uno spazio del racconto in cui siano netti i contrasti, e spigolose le sfaccettature.

Parada è un film pieno di significato e di forza ideale, destinato a deflagrare con maggiore violenza in un momento come questo, in cui il tema della tolleranza torna ad essere motivo d’inquietudine per molti. Tuttavia prima di tutto questo film è un’ottima opera cinematografica. Ben raccontata, ben girata e ben recitata (specie nella versione in lingua originale). Quel che ha da dire pretende di dirlo solo attraverso il linguaggio dell’arte. Senza didascalie, facendo politica proprio come accadeva nei teatri dell’antica Grecia. Ed è per questo che lo spettatore sente quel senso di commozione a cui, se non riesce a dare un nome è solo per desuetudine. La parola esatta per definirla in modo aristotelico sarebbe catarsi ed è la conseguenza di quel grado di bellezza che, per dirla con Dostoevskij, può salvare il mondo.