Anno 1 Numero 25 Del 30 - 6 - 2008
Il complesso di Edipo
Editoriale

Gian Maria Tosatti
 
E’ tutta roba già vista. Non appassiona più. I telegiornali sembra li diano in replica e invece sono in diretta. L’Italia ha un vizio particolare, quello di ripetersi, di riproporre dei classici di successo. E’ così per i film di Vanzina, che da vent’anni sciorinano le stesse battute ed è così anche per la politica, che da vent’anni ha gli stessi protagonisti e gli stessi nodi. Il neoclassicismo è un vizio storico del bel paese. Ma a ben vedere – a differenza di quello ottocentesco e novecentesco – quello fiorito in era post-moderna non è che abbia alla sua origine modelli paragonabili all’ordine ellenico. Scava scava e una volta arrivato alla fonte, alla matrice, ci si rende conto che forse il modello non si è logorato, impoverito, col tempo, ma è stato fin da principio un’inaccettabile aberrazione. Vale per gli attacchi alla magistratura come per i film di Vanzina. Quel che c’è oggi non è un taroccamento, ma una copia fedele di un controverso originale.

E allora forse val la pena di rispolverare gli originali. Uno in particolare. Gli italiani hanno memoria assai breve. E forse hanno dimenticato di un certo fascicoletto intitolato Piano di rinascita democratica. Fu sequestrato nel luglio del 1982 all’aeroporto di Fiumicino a Maria Grazia Gelli, figlia di Licio, che lo teneva nascosto nel doppio fondo della valigia. Il piano era databile attorno al 1976, momento in cui esso fu – secondo le dichiarazioni del suo autore – fatto pervenire all’allora Presidente della Repubblica Giovanni Leone. Nelle poche paginette che costituiscono il documento si può leggere con una certa chiarezza la storia italiana degli ultimi trent’anni, ossia la storia che sarebbe stata scritta a seguito della stesura del Piano. E’ proprio Gelli, ex venerabile maestro della loggia P2, a riconoscerlo. «Guardo il Paese, leggo i giornali e penso: ecco qua che tutto si realizza poco a poco, pezzo a pezzo. Forse sì, dovrei avere i diritti d’autore. La giustizia, la tv, l’ordine pubblico. Ho scritto tutto trent’anni fa». Così dichiarava nel 2003 in un’intervista raccolta da Conchita De Gregorio per Repubblica.

Ma di fatto che cosa c’è scritto nelle righe e tra le righe del Piano? Beh in realtà esso rappresenta una sorta di programma per il controllo del potere dentro ed attraverso lo Stato italiano. Vi si fa menzione degli strumenti utili ad assicurarselo, che passano per la corruzione di giornalisti dei principali organi di stampa nazionali e di politici chiave nei partiti dell’allora Prima Repubblica. Si specificano anche i costi delle differenti acquisizioni. E poi si passa a operazioni più sofisticate, come la dissoluzione del monopolio televisivo statale e l’introduzione di una liberalizzazione televisiva “controllata”, attraverso cui cercare di disarmare l’opinione pubblica media. E da lì si arriva ad una riforma della magistratura che prevedeva una separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri e rendendo il Consiglio Superiore della Magistratura responsabile verso il parlamento. E fra le molte questioni in ballo spunta anche qualche assonanza con l’aria che si respira nell’attuale decreto sulla sicurezza.

Tutto è estremamente chiaro e scrupolosamente dotato di varianti in caso di impraticabilità di certe strade. E’ così che nel capitolo sulla acquisizione di un certo numero di politici chiave si può trovare un comma piuttosto particolare. In esso si specifica che sarebbe necessario «valutare se le attuali formazioni politiche sono in grado di avere ancora la necessaria credibilità esterna per ridiventare validi strumenti di azione politica». «In caso di risposta affermativa» – prosegue il documento – «affidare ai prescelti gli strumenti finanziari sufficienti – con i dovuti controlli – a permettere loro di acquisire il predominio nei rispettivi partiti». «In caso di risposta negativa usare gli strumenti finanziari stessi per l'immediata nascita di due movimenti: l'uno, sulla sinistra (a cavallo fra PSI-PSDI-PRI-Liberali di sinistra e DC di sinistra), e l'altro sulla destra (a cavallo fra DC conservatori, liberali, e democratici della Destra Nazionale). Tali movimenti dovrebbero essere fondati da altrettanti clubs promotori composti da uomini politici ed esponenti della società civile in proporzione reciproca da 1 a 3 ove i primi rappresentino l'anello di congiunzione con le attuali parti ed i secondi quello di collegamento con il mondo reale». E qui c’è poco da aggiungere, perché vi figura con un certo grado di incontestabile esattezza la storia della Seconda Repubblica, ovverosia di quel nuovo corso politico generato a seguito di una crisi in cui le allora «attuali formazioni politiche» persero la per via dello scandalo di “Mani Pulite” «la necessaria credibilità esterna per ridiventare strumenti di azione politica».

Non è un mistero che a militare nella celeberrima loggia deviata fosse anche un certo Silvio Berlusconi, allora rampante imprenditore. Gelli, nell’intervista sopra citata, lo definisce con poche parole: «Berlusconi è un uomo fuori dal comune. Ricordo bene che già allora, ai tempi dei nostri primi incontri, aveva questa caratteristica: sapeva realizzare i suoi progetti. Un uomo del fare. Di questo c'è bisogno in Italia: non di parole, di azioni». Ma una definizione più esauriente per definire l’attuale premier la si può estrarre direttamente dal Piano, laddove si specifica che: «Qualora invece le circostanze permettessero di contare sull'ascesa al Governo di un uomo politico (o di una èquipe) già in sintonia con lo spirito del club e con le sue idee di "ripresa democratica" è chiaro che i tempi dei procedimenti riceverebbero una forte accelerazione anche per la possibilità di attuare subito il programma di emergenza e quello a breve termine in modo contestuale all'attuazione dei procedimenti sopra descritti. In termini di tempo ciò significherebbe la possibilità di ridurre a 6 mesi ed anche meno il tempo di intervento, qualora sussista il presupposto della disponibilità dei mezzi finanziari». E mezzi finanziari ce n’erano eccome, tanto più che invece di «acquisire uno o due periodici di battaglia da contrapporre a Panorama, Espresso, Europeo sulla formula viva “Settimanale”», si è optato alla diretta acquisizione di alcuni di questi da parte del proprietario di quelle televisioni nazionali e locali coordinate fra loro che stanno alla base del Piano per ciò che riguarda la riforma dell’informazione.

Nel Piano c’è ancora molto. Tutto sintetizzato in una cinquantina di punti, scritti da Gelli con un particolare anelito sacrale che ne distingue il respiro da qualsivoglia altro cospiratore eversivo. E’ per questo che con una maniacale insistenza si fa riferimento alla parola democrazia e al concetto di moderati. La prima figura oltre che nel titolo nella prima delle premesse che così recita «L'aggettivo democratico sta a significare che sono esclusi dal presente piano ogni movente od intenzione anche occulta di rovesciamento del sistema». Il secondo è invece la chiave attraverso cui costruire un nuovo meticciato politico finalmente privo di identità e coscienza riconoscibili e obbedienti a principi ideologici alti e poco inclini ai compromessi. In ogni paginetta c’è un certo numero di parole che prende licenza dall’essenzialità di base del documento e viene speso per ribadire lo spirito democratico che anima quello che è in tutta evidenza, invece, un colpo di stato estremamente sofisticato. La democrazia calata dall’alto si direbbe oggi quando anche questo concetto è diventato un classico d’uso comune.

Per concludere, obiettivo di questo editoriale – che introduce un numero della rivista che indaga le forme di rielaborazione dei classici - non è biasimare le forme, le idee, le azioni. Non è nostro compito. Non ci interessa nemmeno entrare nel merito del Piano se non per stigmatizzare l’uso improprio di termini quali democratico e moderato, notando appunto però che è proprio in questa forma deviata che essi hanno preso piede nella nostra società attuale, in questo Stato presente, la cui paternità vera pare si debba attribuire piuttosto ad un fascicoletto clandestino che alla carta costituzionale. Per quanto ci riguarda dunque, restando in tema di classici, quel che ci interessa, quando se ne presenta l’occasione, è solo fugare la confusione e ricordare ad Edipo che è figlio di Laio, re di Tebe, e non di Polibo, re di Corinto.