Natalia Di Iorio (ph. Gino Colombari)
Natalia Di Iorio (ph. Gino Colombari)
Un'immagine da
Un'immagine da "Bernadetje" di Alain Platel

Anno 1 Numero 24 Del 23 - 6 - 2008
Strade praticabili
Intervista a Natalia Di Iorio, madre delle “Vie dei festival”

Mariateresa Surianello
 
Il solstizio di questo fine settimana ci spinge verso l’estate piena, e nella calura che aumenta qualcuno ha già iniziato i pellegrinaggi sulle vie dei festival teatrali italiani e, per chi può permetterselo, esteri. Tra questi viaggiatori abbiamo incontrato Natalia Di Iorio, una delle operatrici teatrali più attive nel panorama italiano, anche per l’attenzione che riserva alle esperienze extra italiane. Molto del teatro che oggi riempie i cartelloni di stabili blasonati lo ha portato all’emersione lei, con un lavoro appassionato e di frontiera. A Roma, con Cadmo, la sua associazione, ha inventato Le vie dei festival, il doppio progetto che prevede la redazione dell’omonimo libretto, che dopo un anno di interruzione torna in libreria oggi, per i tipi della Minimum fax, e il festival che, con lo stesso nome, in autunno raccoglie “il meglio” dei festival estivi. Da cinque anni Di Iorio è direttore del Teatro Marrucino di Chieti, dove ha realizzato uno svecchiamento dei cartelloni con proposte intraprendenti che sintetizzano il suo modo di lavorare.

Nei primi anni 90 alcuni festival estivi italiani raggiungevano un grado di maturità eccezionale – alla direzione di Santarcangelo dei Teatri c’era Leo de Berardinis – in particolare per la loro permeabilità all’innovazione. Sono stati luoghi d’accoglienza della ricerca e della sperimentazione dei linguaggi della scena, luoghi d’incontro e di conoscenza, in alcuni casi – tipo Inteatro di Polverigi – anche di esperienze extra italiane. Erano in grado di soddisfare la richiesta di “nuovo teatro” che non trovava spazio nelle stagioni invernali dei grandi teatri istituzionali e poco ne trovava in quelli privati. In questo quadro nascevano a Roma Le vie dei festival (in gemellaggio con Modena), con le quali gettavate il seme per il festival d’autunno. Com’erano quegli anni e cosa ti ha portato a inventare questa formula di festival dei festival?

Sì, c’era un dialogo continuo con la ricerca e l’innovazione, i festival erano luoghi in cui si poteva liberamente sperimentare. Però, negli anni 90 arrivava poco teatro extra italiano, a parte gli esempi eclatanti di Polverigi. Abbiamo cominciato insieme a Modena per affinità di vedute, per vicinanza tra le persone, fondamentale. Avevamo uno stesso modo di intendere la politica teatrale. A Roma abbiamo iniziato dicendo che avremmo fatto vedere quello che in città normalmente non passava. Pure essendo una capitale teatrale – come Milano e Napoli per certi versi – e nonostante avesse un bacino di pubblico sterminato, Roma non aveva quel tipo di teatro. I primi anni abbiamo fatto cose “bizzarre” come Marco Paolini che nessuno conosceva.

Ed eravate impegnati anche sul reperimento di nuovi spazi. Anzi, avete proprio incarnato la necessità di creare visioni diverse.
Abbiamo ospitato spettacoli con allestimenti particolari. Non è che non ci fossero i teatri adatti a quel tipo di repertorio, c’era il Vascello, il Colosseo... il fatto è che a nessuno veniva in mente di proporre uno spettacolo per trenta persone dentro un corridoio, come è stato per Il ritorno di Casanova (di Marina Cvetaeva con la regia di Ivan Popovski, allestito al Borghetto Flaminio, ndr), uno dei lavori più belli che abbiamo ospitato alle Vie dei festival e che arrivava proprio da Polverigi. Tanti spazi che oggi ci sono a quei tempi non c’erano ancora. Il problema è sempre lo stesso e cioè come si programmano i teatri. A Roma non c’era un teatro che programmasse con un certo criterio quel tipo di lavori. Il pubblico non si riconosceva in un luogo come oggi in qualche modo succede con India. Avevamo anche la necessità di affermare un “qui puoi vedere il teatro del futuro”, ovviamente, secondo noi. Per fare un esempio eclatante, Pippo Delbono non lo voleva nessuno. Noi abbiamo portato Barboni affittando la sala Orfeo dell’Orologio e tanti critici alla fine dello spettacolo mi hanno presa da una parte dicendomi: «Tu sei pazza... come ti è venuto in mente di fare uno spettacolo così...».

In quello stesso 1994 vedeva la luce il vostro “libretto tascabile”, la famosa guida ai festival, divenuta da subito uno strumento eccezionale per rintracciare il teatro meno visibile...

Festival e libretto sono nati insieme. La ricerca di materiale è stata fatta per poter realizzare il festival, ma quando abbiamo avuto in mano tutte quelle informazioni abbiamo deciso di pubblicare una guida per il pubblico. Abbiamo cominciato a scrivere pensando a spettatori non specializzati, spiegando un po’ quello di cui stavamo parlando. Lo scopo era quello di fornire anche a spettatori occasionali uno strumento per orientarsi nel panorama dei festival.

Facciamo un salto di quindici anni e arriviamo a queste settimane di avvio della stagione festivaliera. Oggi, forse per una serie di coincidenze non casuali (cito due situazioni diverse, Santarcangelo e Castilgioncello con Armunia) il modello festival sembra aver raggiunto un punto di crisi, quali sono le cause di questa decadenza?
Le cause sono molteplici, in alcuni casi il problema economico è stato determinante, prendiamo appunto Armunia, se avesse più soldi non incontrerebbe le tante difficoltà che invece ha. In altri casi non si verifica una mancanza di danari, ma il problema è la progettualità. Dipendiamo sempre di più dalla politica, è questo il vero problema. E la politica si è messa in testa di fare gli eventi, perché servono a costruire l’immagine dell’assessore di turno. C’è la convinzione che l’evento crei consenso, che serva ad avere voti. Ammettiamo sia vero questo - non lo so – i fondi destinati ai festival vanno comunque a finire su manifestazioni che devono valorizzare le bellezze naturali del territorio dal punto di vista turistico. I programmi sono tutti uguali, si dichiarano unici e internazionali, e invece non lo sono affatto, e puntano solo a richiamare i turisti. C’è una grande confusione tra festival e rassegna, all’assessore fa più comodo quest’ultima per alimentare il consenso popolare. Il festival è un luogo di sperimentazione e lo sono Le vie dei festival. Pensiamo alla prima volta di Nekrosius in Italia, ho dovuto faticare molto per far venire i giornalisti. Come ogni volta che presentiamo un nuovo nome. Ma vogliamo ricordarci di Platel col suo Bernadetje? Alla fine siamo riusciti a portarlo fuori stagione, prima che vendesse l’autoscontro (lo spettacolo si svolgeva su una vera pista di luna park con le sue macchine da scontro, ndr) al Teatro Vascello, perché si sono fidati della nostra proposta. Oggi invece si fa il festival della letteratura, quello dell’umorismo, dell’intelligenza... è diventata una parola abusata. Vent’anni fa Santarcangelo era piena di gente che non faceva questo mestiere, erano persone curiose che venivano a vedere quello che di nuovo si muoveva.

Paradossalmente, invece di allargare l’utenza, ci si è chiusi ancora di più nel ghetto. Oggi i festival sono luoghi per addetti ai lavori.
Per noi è un po’ diverso, Roma è un banco di prova, alle Vie dei festival gli artisti trovano un pubblico vero, curioso e pagante. Un pubblico “normale”.

Poco fa accennavi alla fiducia del Vascello per ospitare Platel, nell’ultimo ventennio si è stabilita una relazione tra festival estivi e stagioni invernali? Quel contatto strategico tra direttori che sarebbe potuto essere utile per diffondere un certo tipo di teatro?
In generale sono stati pochi. Noi in alcuni casi abbiamo avuto relazioni strette. E’ successo con festival esteri, con i quali abbiamo collaborato alla produzione. La maggiore difficoltà su Roma è trovare le strutture. E’ chiaro che se puoi portare uno spettacolo a India o al Valle più facilmente richiami pubblico e riesci a lavorare meglio anche con la stampa. Negli ultimi dieci anni ci sono state delle ondate. Non tutti gli anni sono stati uguali. Se abbiamo una spesa in meno, se non dobbiamo pagare il fitto del teatro e abbiamo un aiuto per la scheda tecnica, possiamo ospitare uno spettacolo in più. Con l’apertura di India è stato più facile, però è cambiato anche il nostro lavoro, rispetto ai primi anni. Quando portavamo Marco Paolini, Pippo Delbono, Danio Manfredini, Sandro Lombardi, Toni Servillo, Spiro Scimone lo scenario era diverso. A un certo punto l’Eti con la direzione di Giovanna Marinelli ha aperto il Valle ad altri spettacoli ed è arrivata India, appunto. Noi in quel periodo ci siamo posti il problema e abbiamo capito che quegli spettacoli non avevano più bisogno del nostro sostegno e siamo andati a cercare altro ancora. Ora siamo arrivati a Virginio Liberti, Teodora Castellucci... Il lavoro che facciamo principalmente è quello di promozione, noi non lavoriamo tanto per l’immagine del festival, ma per le compagnie, facciamo pressing sulla stampa e sugli operatori. A volte ci riusciamo, ultimamente è successo con Prima della pensione di Renzo Martinelli e anche con il Teatrino Giullare è tornato con Finale di partita. Egumteatro sta nella stagione di India. Cerchiamo di fare un lavoro di avanguardia. Richiamiamo l’attenzione. Principalmente su Roma, ma chiamiamo anche gli operatori stranieri, Nekrosius a Bruxelles è andato perché lo avevano visto da noi. Per Puppert Company avevamo portato molti stranieri e la compagnia ha potuto fare una tournée all’estero.

Come direttore del Teatro Marrucino hai guardato ai festival per preparare le stagioni?
Quando sono arrivata a Chieti ho trovato una situazione preistorica, nella città e nell’area metropolitana - Chieti significa anche Pescara, sono due città unite. Lo Stabile di Innovazione faceva quello che poteva, mentre tutti i denari della distribuzione erano sbilanciati su un certo genere di teatro. L’Amministrazione comunale aveva deciso di staccarsi da questo circuito per provare in autonomia, si erano stancati di vedere sempre le stesse cose e volevano capire se c’era un altro teatro italiano. Senza finanziamenti, abbiamo lavorato sugli incassi e con uno sponsor, la Cassa di Risparmio di Chieti, che ha investito ogni anno di più sulle stagioni teatrali. Abbiamo iniziato a portare compagnie che non erano mai state in Abruzzo, dal Piccolo di Milano a Pippo Delbono. Il pubblico ha risposto bene, abbiamo cominciato a ricostruire un “gusto teatrale”, anche organizzando incontri e coinvolgendo le scuole. Abbiamo insomma lavorato molto sulla promozione e sulla formazione di un pubblico. Ora possiamo azzardare, lo scorso anno abbiamo portato la Raffaello Sanzio e, per esempio, ho inserito Elettra di Andrea De Rosa nella stagione del “Classico”. Le reazioni del pubblico sono diverse, perché è molto misto. Ma queste scelte sono importanti per i giovani, che si abituano a vedere spettacoli più “difficili”. Il lavoro rispetto a Roma è diverso, se porto Scarpetta o Alessandro Gassman non devo faticare molto per riempire il teatro. Il problema è che i teatri non vogliono lavorare sulla promozione. E’ più facile scrivere sulla porta Albertazzi anziché De Rosa, ma quando vengono a vedere quest’ultimo sono motivati e non badano solo a “come si porta gli anni quella certa attrice”. Se i teatri comunali facessero questo ragionamento ci sarebbe la possibilità di replicare gli spettacoli più di ricerca, per loro si creerebbe un mercato. Perché quello che abbiamo è un falso mercato. Gli spettacoli di ricerca hanno solo degli scambi, nessuno vuole lavorare su di loro, manca la volontà di proporli, e ci si nasconde dietro al fatto che il pubblico non li capisce. Se fosse così, si potrebbe lo stesso iniziare con la metà degli spettatori e con un incasso ridotto, è per questo rischio che si usano i fondi pubblici. Perché lo Stato dovrebbe intervenire su cose che incassano sicuramente? Perché dobbiamo pagare 15-16mila euro per degli attori che sicuramente incasserebbero quella cifra?

Chi programma le stagioni non vuole rischiare?!
Sì, nessuno ha veramente voglia di lavorare suoi nuovi spettacoli, questa è la verità. E, da questo punto di vista, i circuiti sono quelli che si comportano peggio, nonostante gestiscano i soldi. Da quest’anno poi la situazione si è molto irrigidita, il pubblico teatrale è calato – i dati che vengono diffusi sono positivi, perché inglobano anche gli spettacoli di Montesano e Proietti. La gente ha meno soldi e non è facile vendere gli abbonamenti, di conseguenza diminuisce anche la voglia di rischiare. I teatri da una parte vanno sul sicuro e dall’altra programmano meno recite. Al contrario, a Chieti Pippo Delbono lo inserisco nel “Classico” che significa replicarlo per tre sere, mentre per le “Nuove scritture” è prevista una sola sera. Qui possiamo rischiare.

Certo, tu osi, sono le persone che portano il cambiamento nelle Istituzioni...

Su Chieti mi ha aiutato molto l’esperienza delle Vie dei festival e viceversa. Ho imparato molto dal pubblico. Lo consulto spessissimo, io lavoro per il pubblico e per le compagnie, quando arrivano devono trovare il teatro pieno. Uno spettacolo se è “bello” funziona, puoi non capire tutto, ma chi gestisce il teatro deve fornire gli strumenti di lettura, organizzare incontri...

Qui si sta aprendo un altro capitolo tragico che è quello della mediazione del fatto teatrale: la critica, l’informazione. Ne parliamo in un’altra occasione?

Sì, lasciamo perdere. Si aprirebbe un baratro. Questo è un problema di cui nessuno parla. Se tutti lavorassero nella stessa direzione il teatro italiano si rinnoverebbe. Oggi il problema non è trovare i soldi per la produzione, quelli in qualche modo li trovi. Ma dopo che lo hai fatto, lo spettacolo, dove lo fai vedere? Se un teatro riesce a costruire una certa solidità, si può permettere di ospitare anche le nuove produzioni.

Per chiudere questa chiacchierata andiamo al futuro delle Vie dei festival. Non si conosce la cifra, ma almeno sulla carta il progetto sarà rifinanziato dal Comune di Roma. Quindi andrai girando per comporre il nuovo programma?
Non si sa ancora nulla di certo. Il nostro budget si è sempre più assottigliato e nonostante sia molto modesto non sappiano se ci saranno quei soldi, comunque mi auguro che non ci facciano morire. Noi stiamo lavorando come se il festival si facesse. Il percorso è lungo, per il libretto abbiamo visto circa mille programmi di festival, tra i quali poi ne abbiamo scelti circa trecento, anche esteri che sono la fonte primaria di ispirazione. Anche se poi dall’estero possiamo portare un solo spettacolo. Mi sono preparata un piano per il giro che farò, ovviamente, ci sono amici e collaboratori fidati. Cerchiamo sempre con lo stesso spirito che è quello di fornire delle indicazioni di strade praticabili.