Nella copertina il campo rom di Testaccio, sgomberato venerd́ 6 giugno a Roma
Nella copertina il campo rom di Testaccio, sgomberato venerd́ 6 giugno a Roma
La vignetta che campeggia sulla copertina dell'ultimo numero del
La vignetta che campeggia sulla copertina dell'ultimo numero del "Vernacoliere". (clicca per allargare)

Anno 1 Numero 22 Del 9 - 6 - 2008
Sterminio?
Editoriale

Gian Maria Tosatti
 
Prima di tutto vennero a prendere gli zingari
e fui contento, perché rubacchiavano.

Poi vennero a prendere gli ebrei
e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.

Poi vennero a prendere gli omosessuali,
e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.

Poi vennero a prendere i comunisti,
ed io non dissi niente, perché non ero comunista.

Un giorno vennero a prendere me,
e non c'era rimasto nessuno a protestare.

A leggere questa poesia apocrifa, brano d’un sermone dimenticato dal suo stesso autore, Martin Niemöller, e poi rimaneggiato, rimontato, effettivamente riscritto di volta in volta, lungo sessant’anni, come gli antichi detti assunti a coscienza popolare, viene in mente un gioco letterario utilizzato da René Daumal. Quello delle poesie che, lette in entrambi i versi (dal primo all’ultimo e viceversa), conservano lo stesso significato ma rovesciano i testi portando alla luce i sottotesti. A leggere questa poesia che sembra un mito fondante di una nuova civiltà – quella contemporanea, il cui tempio si è eretto sulla necropoli di Auschwitz – e che si presta a raffinati esercizi letterari come possono appunto solo i testi misteriosi e senza paternità, si nota qualcosa che non torna, anzi, che torna fin troppo. Bisogna rileggerla. Per dritto e per inverso. E quindi si capisce qual è il senso bruciante di questa cronachetta, quasi un appunto, scarabocchiato a margine di qualche altra cosa. Invertendo l’ordine di lettura si comincia dal fatto che non era rimasto più nessuno per protestare, e poi hanno portato via il “me” narrante – che in questo caso non è l’ultimo della lista, ma il primo -, e poi i comunisti, gli omosessuali, gli ebrei e gli zingari. Il risultato non cambia. Piano piano tutti vengono portati via. Nessuno protesta. Dall’inizio alla fine. Nessuno protesta e tutti scompaiono. E forse, leggendo in questa direzione risulta subito chiaro che nella società quando si inizia a sottrarre vuol dire che il grado zero è già raggiunto, che sono già scomparsi tutti da subito, liquefatti, evaporati, scolorati. Ciò che dev’essere fisicamente rimosso non è altro che l’insieme dei residui (e tali appunto sono le categorie citate). Sono loro, comunisti, omosessuali, ebrei, zingari ossia gente più dura, che non si scioglie con la pioggia perché ne ha passate di tutti i colori, gente marchiata, non tanto dai triangoli colorati dei campi di concentramento nazisti (cui questa poesia fa riferimento), ma dalla loro appartenenza di sangue a qualcosa che li rende necessariamente non-omologati. I comunisti in primis, che privati ormai di una rappresentanza parlamentare (per quanto controversa) - come dice Ascanio Celestini - sono un mito come i marziani. Uomini che sopravvivono al comunismo stesso e a cui probabilmente non funziona bene il cervello se dopo duecento anni di capitalismo non hanno ancora capito come va il mondo. Qui probabilmente sono assimilati agli “scemi”, ai malati di mente che furono mandati al macello come gli altri, e che forse per questo l’ultima vulgata della poesia non cita. E poi gli omosessuali, diversi per ragioni genetiche, gli ebrei la cui religione è una razza o viceversa e gli zingari la cui etnia è una tara in ogni posto della terra. Quando nella società si inizia ad andare per sottrazione vuol dire che è già piazza pulita, che la società non è più civile e non c’è Stato in cui integrarsi, solo, forse, un esoscheletro di Stato che si muove portando nella gabbia delle costole un cuore morto. Ma questo ragionamento è a sua volta un gioco letterario e omette volontariamente le premesse della realtà attuale per poter dimostrare una tesi solo attenendosi al testo in epigrafe. Nei fatti è già evidente come in Italia non esista uno Stato. In Italia c’è un silenzio desertico, in cui riecheggia come un tuono passeggero l’urlo di predoni e folle inferocite. L’opinione pubblica, come concetto simbolo delle conquiste democratiche, non c’è più. E il clima è quello della lotta fra clan, fra popoli, il clima di “o noi o loro” che la peggiore politica della storia repubblicana – quella che tratta il Presidente della Repubblica come una pezza da piedi, neanche fosse Hindenburg - non ha potuto che fare propria. Non è più questione di regole o di leggi, non è più importante distinguere tra soggetti che delinquono e soggetti che lavorano se si vuole introdurre il reato d’immigrazione clandestina, che rende delinquenti solo per il fatto di esistere (a prescindere dalla propria condotta) o se si compiono censimenti su base etnica (come accade in questi giorni a Milano, dove nel mucchio finiscono cittadini italiani decorati al valore civico, bambini che vanno a scuola, o taccheggiatori di qualunque nazionalità). Ma se anche oggi l’Italia è ignorante di valori che guardano alla civiltà, alla concordia, all’impegno congiunto per battere il degrado culturale quale fonte principale di ogni disagio, è solo perché ha dimenticato e non perché non ha mai conosciuto.
Gli zingari sono già arrivati a prenderli. Ora gli italiani devono decidere se continuare a scalare la lista con il loro omertoso disimpegno o riprendere in mano il ruolo di custodi della democrazia e smettere di farsi passare tutto sopra la testa. Gli zingari hanno già lanciato un segnale con la manifestazione di domenica scorsa a Roma (promossa da Santino Spinelli, un rom con doppia laurea e cattedra all’università di Torino) e con le molte occasioni (di cui in questo numero della rivista diamo conto) in cui chiedono aiuto per superare il degrado umano e culturale da cui molte comunità vorrebbero riscattarsi. Staremo allora a Roma con Spinelli per aiutare i rom a costruirsi una definitiva coscienza italiana o staremo a Mestre con gli scalmanati per abbattere uno dei pochi esempi maturi di integrazione e di superamento del degrado disumano delle lamiere? Il futuro lo scrivono i cittadini, non crediamo che esso sarà rivelato dalle pagine dei giornali. Vogliamo un’Italia nuova, viva, consapevole o vogliamo che gli zingari siano i primi degli ultimi ad essere portati via?


P.S.
La copertina di questo numero è un’immagine del campo rom di Testaccio, collocatosi sul lungotevere nel 2007 e proveniente dall’attiguo Campo Boario, a seguito della necessità di far spazio ai lavori per la Città dell’altra economia. Dal 2005 i responsabili del campo hanno in mano un impegno firmato dal Comune per una soluzione condivisa della loro emergenza. Venerdì, in mattinata, la polizia ha sgomberato l’agglomerato senza esibire alcuna ordinanza ai legali che ne hanno fatto richiesta e dunque senza rispettare neppure le regole della legalità tanto sbandierata. Per finire lo sgombero hanno dovuto attendere il pomeriggio, affinché si evitasse che i bambini del campo, al ritorno dalla scuola elementare del quartiere, non trovassero più niente e nessuno là dove fino alla mattina c’erano le loro case di fortuna. Tutte le 150 persone “rimosse” senza alcuna indicazione su dove andare erano di cittadinanza italiana. Il sindaco Gianni Alemanno alle interrogazioni sul palese conflitto fra quanto accaduto e un annunciato progetto di soluzioni ragionate e pianificate per l’emergenza Rom, basato sulla solidarietà e la ricerca di possibilità d’integrazione, ha minimizzato dicendo che quello di venerdì è stato solo «un intervento di piccola entità» per «la tutela quotidiana della legalità». Noi de La differenza, come molti altri cittadini, consapevoli che ogni realtà è ben più complessa rispetto a come si dipinge, crediamo, a prescindere da specifiche posizioni politiche, che chiunque si ponga – a parole - come campione di virtù e di legalità dovrebbe, poi nei fatti, agire in modo irreprensibile anche per quel che riguarda la tutela dei diritti dei più deboli. Sicuramente crediamo che l’Italia attraverso le istituzioni dovrà compiere un grande sforzo per risolvere questioni di disagio e degrado, andando a colmare profondi vuoti culturali che giorno dopo giorno rendono sempre più distanti le comunità emarginate esponendole al rischio di derive criminali, ma crediamo anche che le ferite di una società vadano curate e non stuzzicate se non si vuole aumentarne la gravità. E in seconda battuta la storia ci insegna che troppo spesso gli inquisitori si sono dimostrati mostri assai più pericolosi delle presunte streghe che andavano cacciando. Speriamo che anche stavolta non ci sia bisogno, alla fine di tutto, di chiedere scusa.