Un'immagine dallo spettacolo
Un'immagine dallo spettacolo
La locandina di
La locandina di "Volevo un gatto nero"

Anno 1 Numero 21d Del 1 - 6 - 2008
Il coraggio di ridiscutere
Aspetti positivi e meno positivi in Volevo un gatto nero di Cie Twain

Gian Maria Tosatti
 
IIl punto di partenza è estremamente interessante. E già dal titolo, dall’immagine di locandina, si capisce che l’intento è quello di scoperchiare, di alzare la gonna alla parte più palpitante del femminile, quella della sfera sensibile, del rapporto con le cose, con la materia, con l’identità, ovverosia quel mondo senza nomi che è l’oggetto del desiderio nell’infanzia ma che fa assai presto a trasformarsi in un casellario di codici senza più fascino o potere. E allora bambine sono le danzatrici, due protagoniste capaci di entrare dentro il paradosso del doppio e nel suo riecheggiare misteriosamente durante il periodo dei primi anni l’unità platonica. La percezione di uno passa attraverso due in un gioco di specchi o di complementarità. Da qui inizia quello che la stessa coreografa Loredana Parrella definisce quasi come un trattato in più punti sull’infanzia, in cui tutto torna, ma che forse vede proprio qui il suo principale limite. Pezzo dopo pezzo, attraverso momenti più o meno luminosi, si assiste ad una rassegna orizzontale di possibilità del femminile che però non raggiungono – o non vogliono raggiungere – la sintesi. E tutto finisce per reggersi sul bastone insidioso e artisticamente controverso della didascalia. Didascalica è la costruzione e la proposizione dei passaggi, e addirittura certe figure in scena sono vera e propria didascalia e niente di più. Un eccesso che brucia quanto di buono c’è in quest’opera che parte da un “sapere di danza”, che una volta tanto non sembra improvvisato, non sembra fare della disciplina artistica solo un pretesto per portare in scena un’idea. Cie Twain sa danzare, ossia fa la cosa più difficile, ma poi si taglia le gambe finendo nelle pastoie della composizione e della scelta linguistica. Didascalismo a parte c’è infatti un altro problema a rendere opaca la linea del lavoro e consiste tutta in un conflitto interno, in un indugio che non sceglie fra una impostazione narrativa e un registro più contemporaneo. Due anime queste che convivono nello spettacolo, ma che finiscono per annullarsi vicendevolmente sottraendo forza al livello più spontanea del lavoro.

Questo è quanto, ma l’analisi compiuta, per una volta, non è distruttiva come può sembrare. Nel presente spettacolo di Cie Twain il problema sta nell’opacità e non nella mancanza di materiale o di buone intuizioni. Se la compagnia trovasse il coraggio di riaffondare impietosamente le mani dentro la struttura pulendone le radici dal parassitismo della didascalia e degli aspetti più narrativi, questo Volevo un gatto nero avrebbe tutte le potenzialità per rivelarsi tra le più sorprendenti ed interessanti proposte che la danza contemporanea romana abbia proposto in questi anni e per lanciare definitivamente una realtà artistica di qualità che agisce in uno specifico territorio della danza che nel Lazio non ha ancora un capofila.