Un'immagine da
Un'immagine da "Stato secondo" di Habillé d'Eau

Anno 1 Numero 21a Del 25 - 5 - 2008
Il punto limite della performance
Con “Stato secondo” Silvia Rampelli viene riconvocata dal dio del Teatro per un chiarimento

Gian Maria Tosatti
 
Oggetto dell’arte: renderci lo spazio e il tempo sensibili. Fabbricare per noi uno spazio, un tempo umani, fatti dall’uomo, che pure siano il tempo e lo spazio.
(Simone Weil)

Premessa
Togliamoci dalla testa che fare Teatro sia una cosa semplice solo perché in giro c’è una moltitudine di spettacoli. Fare spettacoli senza appoggiarsi alle convenzioni che per abitudine ci fanno andare bene anche la prima serata di Rai Uno è molto difficile, fare Teatro è difficilissimo.

Svolgimento
Inizia col piglio duro degli ultimi due anni Silvia Rampelli, in questa nuova produzione della sua compagnia Habillé d’Eau. Alessandra Cristiani impone il silenzio con la sua presenza. Inizia il suo esercizio di esposizione al tempo che passa per la scomposizione figurale volendo raggiungere lo stato di sostanza pura. Il suo corpo si piega facendosi chiave del gioco al limite continuamente teso fra tenuta e rottura cui è soggetto tutto lo spazio. Sensibilmente è qualcosa che si avvicina all’elasticità del ferro, messa in crisi dalla ruggine che sembra emanare dal proprio interno la danzatrice, dal suo ombelico, dalla sua testa. Eppure stavolta qualcosa è diverso. L’inversione della riconoscibilità del visibile produce una frattura. Le linee che costituiscono la sagoma della danzatrice non si disperdono come vettori liberi nello spazio, ma si ordinano in una doppia metà umana, e di più, femminile. L’impianto estetico resta quello di base, ma, come in Camera - uno dei passaggi precedenti di questo percorso di ricerca - la figura si fa più presente, e porta nel quadro tracce d’identità atavica. Nell’asetticità semplice dello spazio, ignudato dalla luce costante e omogenea, s’introduce una componente complessa. Viene allora a crearsi una sorta di doppia dicotomia, ontologica - fra perimetro e volume della visione - e attiva - fra figura e immagine. E’ proprio in questa parte allora, dove le premesse spaziali risultano assai differenti da quelle di Camera, in cui “complesso” stava con “complesso” in una cornice concettuale chiara, che si manifesta la magmatica consistenza di questo Stato secondo della ricerca di Habillè d’Eau, più evidente nella seconda parte del lavoro.

Dopo la calata di un sipario critico, in forma di diaframma stuprato dallo sguardo della Cristiani (illuminata al negativo) inizia, infatti, una sequenza di immagini che stabilisce una relazione concettualmente difficile da relazionare all’impianto precedente. Tutto ora sembra cedere alla volontà di plasmare la visione in modo diverso da prima, quando essa passava per la polverizzazione dell’evidenza dell’oggetto in una moltitudine di ipotesi, tutte rette dalla solidità della sostanza. Adesso i corpi immersi nella placenta fantastica della scena paiono recuperare uno status riconducibile a quello di vecchi lavori della compagnia, Refettorio principalmente, o Ragazzocane, in cui la ricerca sull’atto performativo di Silvia Rampelli non si era ancora radicalizzata come nella fase successiva. Che si tratti allora di una “involuzione”? Se sì allora bisogna parlare di “irresistibile involuzione”, giacché le ipotesi visive della seconda parte di Stato secondo hanno una qualità di irrisolutezza che misura tutto l’attrito di un conflitto conscio-inconscio interno alla coreografa. Il suo recupero di certi segni, specie quelli legati al femminile, che in questo lavoro erompe debordantemente, risulta assai diverso rispetto alle rigorosissime modalità sintattiche su cui Habillè d’Eau s’è nel tempo misurato. In questo lavoro, che cede talvolta addirittura al romanticismo visivo, non c’è quella scivolosa secchezza propria di Refettorio dove la riflessione sul femminile si manifestava ad un grado estremo di consapevolezza e calcolo. Qui, l’immagine si lascia eccedere, si trascina provocatoriamente oltre il proprio limite di tolleranza, ma non oltre sé stessa.

Alla fine anche questa camera delle visioni si rompe con la calata di un secondo sipario (stavolta concreto), che spalanca l’occhio del teatro come l’obiettivo di un banco ottico puntato contro un muro. Restano le evidenze, in una chiusura circolare che rimette in primo piano la stessa sequenza di movimenti compiuti dalla Cristiani in apertura. Ma è un terzo salto che stavolta non regge, perché già il secondo, che aveva spezzato in due lo spettacolo, si era retto su un filo troppo esile e non bastante a sostenere una generale coerenza dell’impianto teorico. Sostanza e figura, infatti, non s’invertono più in tempo e sfondo, secondo le tesi chiave di questa ricerca artistica, ma rimangono tali: i corpi figura (anzi, addirittura immagine) e il tempo sfondo (che però perde la sua purezza cognitiva per cedere alla percezione artefatta). Nelle tappe precedenti perché gli assunti si verificassero la Rampelli aveva costretto l’intera sua costruzione ad un rigore della spogliazione assoluta che stavolta non si ritrova né nella prima parte del lavoro (che a quella essenzialità si richiama), né tantomeno nella seconda che parte per una deriva visiva apparentemente incoerente rispetto alle sue premesse. Il castello sembra incrinarsi proprio sulla natura complessa della figura che la coreografa non riesce a privare dei propri attributi. E sono proprio questi continuamente a reclamare la loro bruciante identità e a decalibrare l’asse della visione in una stortura carnale. Ed è anche evidente come la coreografa non ne sia ignara, tanto più che spesso ne prosegue la traiettoria curva fino poi a ritrovarsi tra le mani un disegno troppo distante dalla tesi iniziale e dunque inservibile, che resta appeso al corpo del lavoro retto dal pericoloso alibi dell’incompiutezza.

Così è proprio il titolo di questo “spettacolo” a ricondurre lo spettatore verso una pace con l’opera. Stato secondo, infatti, significa “essere in una nuova fase”, e non “aver prodotto un nuovo risultato”. Ciò dunque giustifica le incompiutezze, le incoerenze apparenti e anche la confusione che lo spettatore arriva a percepire tra il rifiuto o non rifiuto della forma artistica. E’ vero però che giustificazioni nell’arte non ce ne sono, mai, tuttavia questa ricerca ha raggiunto un punto cruciale in cui la questione, è proprio se essere parte dell’universo artistico, e dunque recuperarne gli strumenti, oppure uscirne definitivamente. In tutta la indefinitezza di questo Stato secondo la presenza di tale dilemma sembra essere forse l’unico punto di chiarezza in possesso della compagnia.