Anno 1 Numero 18 Del 5 - 5 - 2008
La terra sotto i piedi
Editoriale

Gian Maria Tosatti
 
Quel che resta della Russia feudale; una famiglia si riunisce nella casa natale per discutere la vendita dell’antica proprietà e del suo giardino dei ciliegi. Sembra qualcosa di lontanissimo eppure no. L’effetto shock di immediatezza con la metafora cechoviana è forte e amplificato fino al paradosso dalla messa in scena iper-tradizionalista di Ferdinando Bruni per Teatridithalia. Nel teatro più vecchio di Roma (per concentrazione di anziani nella platea), con la regia più vecchia che si potesse fare, si riesce a cogliere l’analogia. Eccola allora lì davanti la trinità generazionale, i padri, i figli e lo spirito degli antenati. Tutti riuniti in un rito funebre che celebra se stessi, la propria progressiva spogliazione, la perdita dei paramenti, che è conseguente alla perdita dell’identità. Nel Giardino dei ciliegi, la famiglia di Ljubov’Andreevna. perde la sua casa non per via dei debiti – Cechov non smette mai di ricordarcelo attraverso le insistite ricette di Lopachin. La perde perché nessuno di loro, né Ljuba, né Anja, né Leonid, né Varja, ha più un posto nel mondo. Il drammaturgo russo parla appunto di quello che accade quando un arco generazionale smarrisce la propria centralità, la propria collocazione sociale. Gli artisti di Teatridithalia sono bravi a farcelo capire senza sottolineare, senza forzare nulla. La metafora sta in piedi da sola. Basta sussurrarla, basta prenderla alla lettera. Loro fanno tutto bene, tutto come prescrive l’autore, nel più delicato e anche più incisivo Giardino che si sia visto in questi anni. E chi sta in platea a guardare non può che sentirsi una spina nel fianco, puntata molto precisamente contro la piaga che fa più male. Perché in questi mesi si è molto parlato del problema della casa in Italia, ma si è omesso un particolare essenziale che ora salta all’evidenza in tutta la sua crudezza: la casa è solo un sintomo esterno, una conseguenza, appunto una metafora.

E così il tema dell’emergenza casa, sbandierato con ostentazione nei dibattiti televisivi di campagna elettorale e del dopo campagna, ci appare di colpo per quel che è, ossia la metafora di un Paese in cui i cittadini hanno perso il loro posto, la loro centralità, la loro identità. Il tema dell’abitare, non a caso, emerge proprio nel momento in cui la condizione di “cittadino”, ossia di “parte del corpo statale” è messa in crisi da un voto che mina i fondamenti della democrazia e dunque della partecipazione. La mancanza di rappresentanza partitica reale (in Italia si continua a “votare contro” come in Zimbabwe e non “per” qualcuno), una legge elettorale che impedisce finanche di votare le persone in cui si ha fiducia e a cui si riconosce una qualità nel proprio impegno, sono elementi che anche da soli mettono completamente in discussione il ruolo del cittadino all’interno dello Stato.

Il problema sta tutto in una confusione terminologica su cui si regge, in modo non del tutto innocente, la democrazia imperfetta all’italiana. Ad esempio, quando è chiamato alle urne il cittadino non è privato del diritto di voto, ma gli sono negate alcune specificità di questo diritto legate al principio di rappresentanza, dunque di fatto esso non elegge il parlamento, ma esprime solo un parere indirettamente vincolante. Il parlamento italiano, nei fatti, attualmente si elegge da sé e dunque la parola “elezioni” arriva ad assumere un significato di portata diversa da quella che per abitudine gli si dà. Allo stesso modo c’è un vizio terminologico nello slogan “La casa è un diritto” che si sente un po’ da tutte le campane. Non è, infatti, la casa ad essere un diritto, ma l’abitare. Se non fosse così sarebbe davvero risolutiva la ricetta propinata da destra e manca (uso questo aggettivo per sinistra in modo consapevole), ossia un grande piano di edilizia popolare. E invece la recentissima storia (quella ancora in corso di svolgimento e di cui ha parlato anche l’ultima puntata di Report) ci insegna che fuori dalle formule magiche da entertainment televisivo, la definizione “edilizia popolare” in Italia significa, favorire la speculazione di grandi costruttori per realizzare lager in cui crescere generazioni di vittime del degrado culturale e sociale ancor più alienate, inermi e straniere in casa propria come e più di quelle presenti, già incapaci di discernere il nome dei propri diritti da rivendicare.

Se, dunque, dietro la rassicurante parola casa si cela lo spettro degli alveari desolati senza servizi, senza collegamenti, senza niente, cresciuti abbondantemente nelle aree metropolitane delle grandi città, non è lo stesso per il termine abitare che presenta al contrario un concetto trasparente, il cui significato è: integrare, mettersi in relazione, viaggiare fra gli strati sociali della propria città in modo trasversale. In questo senso la controversa Italia degli anni ’60 e ’70 può sempre essere considerata un modello. Oltre la povertà e il degrado presenti da sempre e per sempre, il panorama del nostro Paese si offriva assai diverso dall’attuale. Famiglie appartenenti a diversissime fasce sociali convivevano negli stessi palazzi, negli stessi quartieri, grazie a tutele che garantivano il diritto ad abitare integralmente le città. Una di queste era ad esempio l’affitto a “equo canone”, che riproposto oggi sembrerebbe una tagliola sovietica e invece era lo strumento che a Roma, a Milano, a Napoli, permetteva ai giovani di poter uscire di casa all’età giusta ed avere la dignità di una casa propria invece di sopportare convivenze forzate - di stampo questo sì bolscevico -, oppure alle famiglie di non dover emigrare a Marino, Guidonia, Ceccano (paesi cresciuti esponenzialmente negli ultimi vent’anni passando da una popolazione da villaggio a quella di un capoluogo di provincia, cui però non sempre è corrisposto un altrettanto esponenziale evoluzione del welfare).

Gli scenari sono cambiati, è vero e i modelli non sono mai imitabili. Li si può però studiare, per trovare nuove soluzioni. E chi altro dovrebbe essere il primo a farlo se non i cittadini? Ma questo ragionamento non sta in piedi. E’ una logica da reazionari. E’ come provare a spiegare a Ljuba che il suo posto deve continuare ad essere il giardino dei ciliegi e che per quel giardino dovrà lottare, dovrà inventarsi un modo nuovo di essere l’inquilina della sua casa senza cedere alle facili soluzioni di Lopachin che ne vorrebbero fare un complesso di villette abbattendo la grazia di un frutteto che fino ad una generazione fa – prima che si “dimenticasse la ricetta” – produceva ricchezza. Ma Ljuba invece se ne va, e così fanno gli italiani, le cui nuove generazioni hanno da tempo fatto le valigie, non hanno un futuro e dunque perché preoccuparsi troppo del presente?