Anno 1 Numero 04 Del 28 - 1 - 2008
Allegoria (finale)
Giù dalla montagna bianca

Attilio Scarpellini
 
“Beati quelli che precipitano dal tetto di un capannone che cede all’improvviso, beati quelli che vengono schiacciati dal carrellino elevatore che stavano guidando, beati coloro che vengono investiti da frane di materiale edilizio nei cantieri abusivi, beati coloro che vengono trascinati e stritolati dai nastri trasportatori, beati…” Salmodiava così, appena un anno fa – sulle pagine del maleppeggio, una rivista che allora c’era e già non c’è più – un discorso della Montagna riscritto da Christian Raimo: stele e poema che allo stillicidio veloce dell’informazione sulle morti da lavoro – col suo andante fluviale che ricorda ancora il “fiume della Storia” incurante e assassino a suo tempo evocato da Arthur Koestler – opponeva la precisione dello sguardo letterario che sulla schiuma delle onde vede sempre riaffiorare il singolo, il sommerso. Tempo dieci mesi e i sette morti nel rogo della ThyssenKrupp torinese sarebbero balzati al culmine della Montagna bianca alzata con i detriti dell’ agonia post-industriale e di un lavoro materiale che una sociologia sbrigativa aveva cominciato ad archiviare già venti se non trenta anni fa - ma che, lungi dallo scomparire, si era soltanto nascosto, sprofondando nelle viscere clandestine di un’economia senza materia. Poi ne sarebbero scesi rotolando giù dal cumulo, scacciati da altre notizie, da altre cadute che compongono il frugale, lo stridente controcanto della nostra storia apparente. Il 24 gennaio scorso, più o meno nello stesso momento in cui il senatore Barbato sputava e il senatore Cusumano sveniva, sul display dei caduti sul fronte dell’economia sommersa scattavano altre due cifre. Un morto nel ragusano, uno nel vicentino. Sempre nello stesso giorno in cui impazzava la fatale bagarre nella Casa del Grande Fratello trasferita presso il Senato della Repubblica, una lavoratrice precaria dell’Università di Bologna scriveva a un’agenzia di stampa indipendente per ricordare che oltre alle morti bianche ci sono anche le “vite nere” dei centinaia di migliaia che ondeggiano nella zona grigia tra il lavoro e il non lavoro, vivi ma completamente disanimati dalla loro mancanza di identità e di futuro – dei musulmaner dell'atipicità.

Se i giornali funzionassero come la letteratura – o almeno come quella del maleppeggio con le sue “storie di lavori” decise a far corto-circuitare scrittura e realtà – queste tre notizie, queste tre visioni, sarebbero state montate insieme, come frammenti della stessa allegoria. Al centro si sarebbe contemplato il fescennino di una rappresentazione politica che non rappresenta più niente tranne la propria gaudiosa decadenza: un’istantanea in bianco e nero dove spicca solo il maglione rosso fuoco sulle spalle del senatore fascista Nino Strano mentre urla senza audio “frocio di merda!”. Ma ai lati di questa immagine senza realtà sarebbero comparsi, sbalzati dalla loro realtà senza immagine, i due volti di un lavoro diviso tra materia e antimateria, tra una pesantezza arcaica che uccide e una postmoderna leggerezza che rende esangui. Il primo avrebbe forse preso le fattezze di Antonio Boccuzzi, l’operaio con le sopracciglia bruciate e la fronte ancora tatuata dal sigillo dell’inferno che in televisione cercava pazientemente le parole per raccontare i suoi compagni scomparsi nell’incendio dello stabilimento torinese della ThyssenKrupp, l’uomo che l’azienda tedesca accusa di essere diventato un “eroe mediatico” solo perché non può sopportare la sua qualità di sopravvissuto. Il secondo avrebbe piuttosto la delicata evanescenza dei ragazzi dell’Atesia intervistati nel film di Ascanio Celestini per i quali il lavoro è un vuoto scavato dentro il tempo e la memoria di sé riprende una volta smesse le cuffie e lasciato il terminale. Il vecchio lavoro industriale era sofferenza, forma, destino (ma anche malattia, condanna a vita, tortura: lo intuì meglio e prima di ogni altro l’ex deportato David Rousset quando nell’universo concentrazionario vide all’opera una parodia ubuesca, ma essenziale, delle strutture di comando della fabbrica moderna). Il lavoro precario nell’era della produzione immateriale è nevrosi, entropia, imponderabilità dell’esistenza. Isolamento e vita liquida, come direbbe Bauman, che a ogni giorno fa bastare la sua pena. Cosa li unisce allora, a parte il loro accostarsi dentro un’allegoria contemporanea? Il filo di quell’incertezza, tragica ma silenziosa, chiamata flessibilità li tiene avvinti ai gradi più bassi un’economia che, dall’erebo degli altiforni all’olimpo dei valori finanziari, vede nel diritto l’ultima, insopportabile frontiera alla propria espansione illimitata. In un mondo dove prima o poi tutto finisce sotto giudizio, soltanto il Capitale non è chiamato a render conto della propria hybris, soltanto il Capitale è veramente libero…Parlare di sicurezza in una “società del rischio”, se non si tratta di ordine pubblico – di rumeni e di campi rom da radere al suolo – è una contraddizione che fa scrollare mestamente il capo agli esperti più avvertiti della gloriosa scienza triste. Non vi è e non vi sarà sicurezza né del, né sul posto di lavoro – perché ne andrebbe dell’unico insindacabile imperativo di quella che per un momento è stata chiamata “turboeconomia”: la velocità di competizione dell’intero sistema, il suo guinness dei primati. Nemica di ogni stabilità preconcetta e di ogni pigrizia ambientale, la mutazione economica delocalizza il lavoro e nevrotizza il lavoratore persuadendolo che, mentre tutto continuamente cambia, niente invece durerà mai abbastanza. Per vivere, o anche soltanto per sopravvivere, bisogna adattarsi a una certa velocità, rischiare l’avventura o l’incidente. Poco importa se, come diceva Hannah Arendt, l’incidente è l’altra faccia del progresso. L’importante è che resti incidentale, che la regola venga confermata, ma mai rivelata attraverso l’eccezione, e il singolo continui a essere, come scriveva sconsolatamente Buchner, “soltanto schiuma sulle onde”.

A una certa velocità, la distorsione ottica finisce col modificare la stessa realtà: i morti e gli zombies che il progresso accantona nella sua corsa irrefrenabile, piuttosto che stratificare una montagna, appariranno nella confusa consistenza della scia di un motoscafo – o forse, come polvere che brulica in una coda di cometa. A una velocità ancora superiore, i morti e gli scarti (i pigri, i lenti, gli inadatti, gli ottusi e i rompicoglioni di tutte le specie) non saranno neanche più visibili – spariranno e con essi la realtà organica di cui erano parte, sostituita dalla traiettoria futurista di un’astrazione divenuta trionfalmente mondo.



L’articolo di Christian Raimo “La montagna bianca” è uscito sul numero II 2007 del maleppeggio, la rivista di “storie di lavori” diretta da Lanfranco Caminiti, tuttora consultabile su www.maleppeggio.it

La lettera sul lavoro precario a cui si fa riferimento è stata pubblicato con il titolo “Morti bianche, lavoro nero” sul sito www.lettera22.it