Anno 0 Numero 06 Del 28 - 5 - 2007
Il segreto del suo successo
L’Assoluzione di Gianluca Riggi, un romanzo italiano

Attilio Scarpellini
 

Successero davvero un sacco di cose nell’anno di grazia 1992, ma, sprofondati sulle poltrone rosse e blu del teatro Palladium per assistere all’ultimo spettacolo previsto in calendario da Teatri di Vetro, ci sembrava di non ricordarne neanche una; che uno dopo l’altro fossero stati assassinati Falcone e Borsellino, che proprio quell’anno Oscar Luigi Scalfaro salisse al Quirinale, e nemmeno che l’arresto del socialista Mario Chiesa avesse cominciato a scoperchiare il Vaso di Pandora di Tangentopoli. Men che mai potevamo ricordare che lo stesso giorno in cui la Cassazione confermava tutte le condanne al primo maxiprocesso per mafia un Presidente del Consiglio che si chiamava Giulio Andreotti rassegnasse le sue dimissioni sostenendo che il suo governo era arrivato al capolinea. Non fosse stato per Gianluca Riggi, e quella sua aria sorniona, da mago appena sbarcato in una festa per bambini, noi, il 1992 lo avremmo archiviato così, senza pensarci. Non era stato il ’93, con quel suo suono arrotato e giacobino, l’anno chiave, l’anno-catastrofe della Prima Repubblica? E invece no, racconta Riggi, preceduto dalla lettura di una carta del processo a Giulio Andreotti, roba scritta in una lingua da stenotipisti che lì per lì ci fa temere una di quelle drammatizzazioni di documenti giudiziari che solo il petulante aplomb di Marco Travaglio potrebbe rendere credibile (mai sopportabile) fino all’ultimo minuto. E invece no, il 1992 fu davvero un anno di sedici lune per il sistema politico italiano, e i resoconti dei processi sono soltanto il controcanto dell’Assoluzione, narrazione disinvolta, sostenuta da una leggerezza perfida – quasi andreottiana - che per quarantacinque minuti lo stesso Riggi conduce, incantando, da bravo mago, la platea. Il segreto del suo successo sta nel fatto che ricordare, seguendo le linee spezzate dei processi, è un conto, connettere tutti i fili, o quasi, di una storia che parte da lontano (“da molto lontano”) è un altro: come ben sa chiunque abbia fatto un minimo di pratica giornalistica, la connessione è il vero lievito dell’inchiesta, e più la connessione allarga le sue maglie nel tempo e nello spazio, più la trama che rivela sarà eloquente, epica, ricolma di stupefacenti sorprese. Raccontare la storia delle collusioni tra un politico democristiano e Cosa nostra è quasi pleonastico – anche se quel politico si chiama Andreotti - la vera impresa è raccontare attraverso quella collusione la storia di un intero paese e della sua democrazia bloccata. Riggi lo fa spegnendo l’ indignazione nel sorriso, prendendo gli spettatori per mano e chiamandone persino uno sul palco – per rispondere a domande di cui lui già conosce la risposta – tacendo quando la musa della legge alle sue spalle lo interrompe per avvertire il pubblico che le sue verità stanno per sconfinare nell’illazione. Lo fa alternando narrazioni e digressioni, ricordi personali e spaccati di una Roma che non esiste più, ma senza mai smettere di guidare una danza che, gonfiandosi nell’ellisse, lo porta, ci porta sempre più lontano. Tra luoghi, nomi e circostanze che rischiavamo di dimenticare: va dal corpo di Mino Pecorelli a quello di Aldo Moro, la vera pietra di inciampo della storia politica italiana, per la cui liberazione Cosa Nostra prima si adoperò, poi bruscamente si disinteressò; dall’aeroporto militare di Ciampino a quello di Trapani, dove l’aereo statale di Andreotti fece misteriosamente scalo quando era in viaggio per la Libia di Gheddafi, da Frank “tre dita” Coppola – chi era costui? – ai luogotenenti andreottiani in Sicilia, tutti picciotti o intimi di picciotti. Non trattiene la battuta acida – “se Lotta Continua fosse riuscita veramente a fare la rivoluzione oggi avremmo Mughini come presidente del Consiglio” – ma anche lo stupore ironico per la piega farsesca che ogni dramma, prima o poi, finisce con l’assumere sul palcoscenico italiano: davvero Andreotti appoggiò il colpo di Stato dei forestali di Junio Valerio Borghese per replicare ai legami di Aldo Moro con il Sifar di De Lorenzo? L’Italia è un paese familiare e familista dove il grande si mescola col piccolo e spesso con l’infimo. Per cercare di capirla bisogna studiare le famiglie e cominciare sempre – come Riggi non si stanca di ripetere – da molto lontano. C’erano una volta, ad esempio, due giovani dirigenti dell’Azione Cattolica che già nel 1937 non andavano d’accordo. Uno era antifascista, l’altro no. Ma entrambi volevano diventare presidenti della Repubblica… Più lo spettro della connessione si allarga, si infittisce, più il raggio della vicenda legale si restringe, fin quando – a dispetto dei racconti di Masino Buscetta – le carte si involvono nell’afasia e il Processo del Secolo sfocia in una scontata e striminzita Assoluzione. A quel punto Riggi chiede il tempo allo spettatore e lo congeda, naturalmente con un bacio. La logica dell’Assoluzione, in fondo, non è lontana da quella del “Romanzo delle Stragi” di Pier Paolo Pasolini, è un dialogo tra la legge e un “parriesaste” dove tutto ciò che la legge non smentisce, ma non può provare, viene consegnato alla testimonianza pubblica, al giudizio politico. Lo spettacolo di Gianluca Riggi meriterebbe di andare nelle scuole. Ma qualcosa ci dice che non sarà così.