L'Accademia degli Artefatti
L'Accademia degli Artefatti
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Un teatro con parole per raccontare il presente
L’Accademia degli Artefatti dal post-drammatico alla precisione di un testo che rifletta la realtà

Gerardo Guccini
 
«Teseo è rappresentato come un uomo seduto per terra. Ha sei braccia come la dea Kalì e ognuna di queste sei braccia sostengono un elemento utile alla narrazione. In particolare una testa che muove come fosse il pupazzo d’un ventriloquo e un altoparlante da cui esce la sua voce. Teseo è vestito con una giacca e un pantalone del colore del fondale, è marmorizzato. Il vestito lascia intravedere le parti di acciaio delle braccia. Il volto è ricoperto di argilla e una benda gli esclude la visione, porta una corona simbolo del potere (vedi “Natura morta”). Indossa una camicia di specchi perché egli stesso è uno specchio riflettente in forma di eroe, è tutto proiettato all’esterno, nell’azione, e lo specchio in lui è verifica di identità»(Fabrizio Arcuri - Elio Castellana, “Sono stato l’eroe o il tramonto dell’eroe. Monologo d’occidente”. Drammaturgia dello spettacolo, “Prove di Drammaturgia”, n. 2/2000, p. 7).

Così, Fabrizio Arcuri e Elio Castellana puntualizzavano il concetto e la figura di Teseo in vista dello spettacolo
Sono stato l’eroe o il tramonto dell’eroe. Monologo d’occidente (Milano, “Teatri ‘90”, 6/2/1999). La descrizione faceva parte del dossier drammaturgico presentato all’inizio delle prove. C’erano scritti che tracciavano la struttura concettuale dello spettacolo e descrivevano i contenuti delle prime due scene, e poi immagini di riferimento, disegni, diagrammi, sinossi, indicazioni bibliografiche: Plutarco, Gide, Yourcenar, Bataille, Manganelli, Wittgenstein, Savater, Nietzsche, Foucault, Nancy, Baudrillard. La terza e ultima scena, le azioni e le parole degli attori, le dinamiche scenografiche e le integrazioni sonore non facevano parte delle progetto iniziale, ma rientravano fra le competenze delle “prove”: parola che rende solo in modo approssimativo i processi di teatralità collettiva che intrecciano alla composizione dello spettacolo le esperienze individuali che questa suscita.

Prima che iniziasse l’avvicinamento agli autori che contraddistingue la ricerca degli Artefatti a partire da Car di O’Connel (2001), i percorsi di Fabrizio Arcuri coi suoi attori prevedevano alcune operazioni ricorrenti. Si cominciava con l’introiezione delle tematiche da parte dei drammaturghi; si proseguiva con la restituzione di referenti concettuali e visivi (dei quali la descrizione di Teseo è esempio indicativo); si passava quindi allo spettacolo attraverso momenti di improvvisazione e discussione. Questi sviluppi progettuali, però, non iniziavano né finivano con l’esternazione spettacolare, ma lasciavano piccole tracce installative (Natura morta con figure), espellevano materiali video (Sulle possibilità irrazionali di vita ad una data qualsiasi), ribaltavano la prospettiva mostrando in foto quello che in scena non si vede (Protesi e sopravvivenze; una semplificazione), si presentavano in un evento unico come una lunga sfilata (Preludio dell’età oscura).

Sensorio, concettuale e disseminato in traiettorie che sfidavano la dispersione del senso, il teatro degli Artefatti rispondeva con spontanee aderenze ai tratti stilistici del post-drammatico teorizzato da Hans-Thies Lehmann alla fine degli anni Novanta: assenza di sintesi; presenza di elementi propri della tradizione manieristica come l’avversione alla compiutezza, l’inclinazione all’estremo, alla deformazione, al disorientamento e al paradosso; non-gerarchizzazione dei segni teatrali e loro simultaneità; affermazione della presenza corporea; sostituzione del testo drammatico con un performance text.

A circa un decennio di distanza, questa prima fase post-drammatica sembrerebbe essersi conclusa. Indagando senza preconcetti il percorso (non solo strutturale, ma di vita) che separa il testo drammatico dall’atto teatrale, Arcuri e gli Artefatti hanno sostituito all’attore immagine l’attore parlante. E cioè un “attore persona” che condivide empaticamente col pubblico il proprio rapporto col testo. Rispetto alle modalità tradizionali, queste ritrovate relazioni fra attore, drammaturgia e spettatore registrano, però, una variante vertiginosa e semplice. Mentre le prime vedevano l’attore indossare il testo e manifestarsi attraverso il personaggio; gli Artefatti manifestano la persona dell’attore nell’atto di rapportarsi alle parole che dirà, così che proprio le intermittenze, in cui le parole vengono ricordate, cercate, indovinate, sperimentate, prefigurate o contraddette, definiscono presenze (identità d’attore straniato o personaggi) che, attraverso accentuazioni, ritmi e dislocazioni di intento, si trasmettono per contagio al testo detto.
Negli spettacoli degli Artefatti, il lavoro sulla parola emana emittenti/persona, mentre il testo drammatico si nega in quanto architettura preventiva venendo segmentato in parole che sembrano (e talvolta sono) trovate all’istante.
Le presenze sceniche degli Artefatti sono decisamente quotidiane. Sedersi in prima fila può risultare imbarazzante: si finisce per pensare che ti parlino davvero. Le cose che dicono e che accadono sono però straordinarie: ironiche e tragiche. Quando, nel teatro degli Artefatti, c’è sangue o cadere di corpi, come nella recente Nascita di una nazione di Ravenhill, accade di sentire il gemito spontaneo del pubblico.
Il manierista Arcuri ha imparato che il meraviglioso disgiunto da stupore non è veramente tale, ma ricerca di stile, e che lo stupore è in sé semplice. Il recitare degli Artefatti, così come oggi lo vediamo, sembra richiamare l’antica prescrizione retorica che raccomandava di far precedere la parola dal gesto, allo stesso modo in cui il lampo – che si vede – scoppia prima del tuono – che si sente. Per gli attori di Arcuri, però, questo “gesto” è in realtà sospensione di tutta la persona sul ciglio della parola non ancora pronunciata.

Lavorare sulla fase che precede il dire e condiziona il detto, schiude diverse declinazioni recitative. Negli spettacoli su testi di Crimp (Tre pezzi facili, Un cielo tutto blu, Attentati, BeSIDES) il testo è come una corda tesa lungo la quale gli attori si muovono esibendo le difficoltà d’ogni singolo passo. Il percorso è tracciato, ma posare il piede richiede un lavoro speciale. E se la corda incomincia a oscillare (magari a causa del regista che la muove da un capo), allora, il movimento si arricchisce di spinte e controspinte facendo della parola detta, quando viene pronunciata, l’Itaca d’una piccola odissea. Gli Artefatti, nell’avvicinarsi al testo, si sono inventati clowns funambolici.
Con An oak tree di Tim Crouch, l’arte di fondare il senso della frase sull’esitazione che la precede, si coniuga ad una situazione in cui un attore ospite, di volta in volta di diverso, si trova per davvero nella condizione di inventare e annodare all’improvviso una sua linea di azioni e reazioni. Questi, infatti, realizza un canovaccio di cui non è al corrente e che gli viene gradualmente esplicato da un attore guida.

Con Mark Ravenhill, di cui è in corso di svolgimento il progetto Spara trova il tesoro e ripeti – un puzzle di diciassette brani autonomi e diversamente coniugabili –, le parole non vengono né improvvisate né pronunciate da attori straniati che prendono ironicamente le distanze dai loro stessi enunciati, ma manifestano risorse interne alla persona. E cioè procedono da un immaginario personale, che il testo coinvolge in eclettici percorsi di senso coniugando le tonalità del parlato alle strutture d’una teatralità profonda: il coro, la metonimia drammatica del personaggio/simbolo, l’apertura della quarta parete, l’appartarsi dell’attore dallo sguardo del pubblico, la dialettica fra dialogo e presenza. La dialettica tra dialogo e presenza e quella, di nuovo fondante,  tra teatro e realtà. E Ravenhill, infatti,  anima con dialoghi franti e spesso non riferibili a personaggi determinati una psiche collettiva che riflette i traumi della contemporaneità, dalla guerra nel Golfo agli attentati di Londra. Scelta questa che, confermando una tendenza ormai connaturata alla drammaturgia anglosassone, allontana dai processi della rigenerazione drammatica il fantasma dell’alienazione sociale. Anche per questo il progetto degli Artefatti si rivela prezioso ed utile come pungolo ad esempio alla scrittura drammatica italiana.
Questo teatro con i testi – che non è in alcun modo un teatro dei testi –  non interrompe, in realtà, il percorso degli Artefatti, che sono passati dalle pratiche del post-drammatico all’esplorazione d’una possibilità ulteriore e non ancora storicizzata del teatro contemporaneo.
Il post-drammatico scenico ha, infatti, prodotto molteplici linee di drammaturgia testuale che contraddicono la sua definizione categorica. Da un lato, le pratiche della “scrittura scenica” hanno dimostrato la capacità di produrre “testi consuntivi” (per riprendere la felice nozione di Siro Ferrone). Dall’altro, specie in area anglosassone, sono apparsi autori che applicano alla scrittura le caratteristiche del post-drammatico come l’assenza di sintesi, l’avversione alla compiutezza, l’inclinazione all’estremo, alla deformazione, al disorientamento e al paradosso. I loro testi non combinano assialmente fabula, intreccio e svolgimenti verbali, né coniugano sinteticamente emittente testuale e personaggio, ma sperimentano le possibilità d’un dialogismo epico che porta gli attori a combinare dinamiche relazionali di tipo orizzontale – fra attore e attore – e di tipo verticale – fra attore e spettatore –, utilizzando le parole come momenti d’avvio e punti di riferimento del passaggio allo spettacolo.
Arcuri si è dunque riferito a drammaturgie scritte che gli consentissero di riprendere e sviluppare su diverse basi la composizione collettiva dello spettacolo. E, nel rapportarsi ad opere, che, sfuggendo la sintesi, evitano di implicare preventivamente gli eventi scenici, ha sondato in concreto le possibilità d’una conduzione post-registica.
Se l’arte del regista si è originariamente definita e come rivelata a se stessa sostituendo i progetti spettacolari previsti dagli autori, la post-regia di Arcuri corrisponde, non già ad una assenza di testi – possibilità storicamente dominata dal ruolo del regista/Maestro/demiurgo –, ma all’utilizzo di testi che non progettano né la rappresentazione scenica né l’identità psichica del personaggio. In questa diversa prospettiva, l’attività di ri-composizione – che caratterizza la regìa storica – si scinde, da un lato, in un lavoro con gli attori che ricava dall’attuazione del testo linee di azione che questo non contiene, dall’altro, nella concertazione dei singoli sviluppi.
All’autoreferenzialità del post-drammatico si sostituisce così una nuova referenzialità, che non s’incardina alla psiche del personaggio come accade nelle forme del “dramma moderno”, bensì al bios dell’attore parlante.