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Anno 3 Numero 03 - 01.03.2011 |
Pubbliche inchieste |
Con «Taxi to the dark side» di Gibney, il cinema si conferma il grande inquisitore dell’America contemporanea |
Federico Pontiggia |
«We have to work the dark side». Così parlò Dick Cheney, a ridosso dell’11 settembre 2001, per tracciare le line guida della guerra al terrore che gli Stati Uniti avrebbero intrapreso di lì a poco. Nel dicembre 2002, un tassista afgano di nome Dilawar viene arrestato, insieme a tre passeggeri, con l’accusa di progettare un attentato con auto-bomba a una base Usa. Recluso nella prigione americana di Bagram, viene torturato così violentemente da morire cinque giorni dopo. Un’autopsia rivelò che le sue gambe erano state maciullate a tal punto che, fosse sopravvissuto, avrebbero dovuto essere amputate. In seguito, l’informatore che l’aveva consegnato, dietro pagamento, alle autorità Usa fu riconosciuto come il vero responsabile del crimine: solo il 7% dei prigionieri di Guantanamo sono stati catturati dagli americani e dalla forze della coalizione, e molti dei detenuti in Afghanistan sono finiti dentro grazie ai “collaborazionisti” dell’Alleanza del Nord. Non è chiaro perché Dilawar fu accusato, ma, come i suoi stessi aguzzini ammettono, divenne evidente prima della fine dell’interrogatorio – l’uomo sospeso in aria per le braccia e bastonato alle gambe – che era innocente. Ma le torture non finirono… Un report ufficiale stabilì come Dilawar fosse morto per «cause naturali», ma il New York Times scovò un referto autoptico che parlava di omicidio. Dopo una tardiva indagine, alcuni soldati Usa furono imputati dell’omicidio: tra questi, nessun ufficiale. Dilawar fu la prima vittima del “work the dark side”, ed è il punto di partenza del regista Alex Gibney (Enron) per Taxi to the dark side, documentario premio Oscar nel 2008 e vincitore al Tribeca Film Festival, che arriva nelle nostre sale - meglio tardi che mai… - con Ripley’s Film. La sua terrificante attualità, anzi la preveggenza, è confermata oggi dalla pubblicazione, col «si stampi» di Obama, dei memo della CIA, che ha creato un putiferio a Langley. Due i punti roventi: la possibilità per un procuratore distrettuale di indagare contro gli agenti che applicarono tecniche di interrogatorio equiparate alla tortura dall’amministrazione Obama; l’eventualità che il Congresso vari una legge per istituire una “Commissione verità”, destinata a svelare le identità degli 007. Se Obama ha rassicurato: «Non perseguirò i responsabili, perché quando eseguirono queste tecniche erano nella legalità», Cheney ha rincarato la dose: «Il waterboarding (la tortura che simula l’annegamento, usata 266 volte, NdR) ha funzionato, ha salvato vite di cittadini americani». Intervistando i “poveri cristi” che sarebbero finiti davanti alla corte marziale e i luciferini legali del Dipartimento di Giustizia (ma divagando – e non ce n’era bisogno - con immagini di tortura dal serial 24 e le memorie del prigioniero, trombato nella corsa alla Casa Bianca, John McCain…), Taxi to the dark side segue gli ultimi giorni della vita di Dilawar e mostra come le decisioni di Bush e accoliti, che convinsero il Congresso ad approvare l’uso della tortura contro i prigionieri di guerra, portarono direttamente alla sua morte. Ma è il fuoricampo a conservare gli interrogativi ineludibili: fin dove si può combattere un nemico non identificato senza venir meno alle regole democratiche? Può il terrorismo distruggere la democrazia? E, l’ultimo, terribile: ora, che cosa ci aspetta? Interrogativi disertati dal grande pubblico Usa, che il film non l’ha visto, e che ora risuonano in tutta la loro dirompente necessità: informativa e, soprattutto, etica. Con un lascito fondamentale: al di là delle breaking news, blog, mass media più o meno allineati, sparute voci fuori dal coro, pubbliche ammende delle Amministrazioni, a fare ancora una volta luce nel buio è il cinema, che scava nel nostro dark side morale per consegnarci la verità, una verità difficile da digerire e ancor più da guardare. |