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Un'immagine da "Inferno"
Un'immagine dal secondo quadro di Purgatorio
Un'immagine dal secondo quadro di Purgatorio

Nel mezzo del cammin di nostra vita
Ha debuttato al Festival d’Avignon la “Divina Commedia” di Castellucci, fra passato e futuro di un artista

Gian Maria Tosatti
 
Avignone - L’attesa era enorme e forse questa trilogia ispirata alla Commedia dantesca sarà considerata da tutti come l’evento teatrale dell’anno. Lo sarà per le circostanze in cui si è verificato, ossia sotto la co-direzione di Castellucci al Festival d’Avignone. E lo sarà anche per la portata mastodontica dell’operazione, seconda solamente alla Tragedia Endogonidia della stessa Societas Raffaello Sanzio. Ma a parte il fenomeno cosa c’è dietro questo Inferno-Purgatorio-Paradiso?
Uno dopo l’altro i tre lavori si mostrano come un panorama complesso entro il quale emergono con maggiore chiarezze questioni legate al particolare momento vissuto dall’artista all’indomani della scissione della Societas Raffaello Sanzio e delle molte domande che tale movimento porta all’urgenza del regista. C’è dunque una profonda interrogazione sull’identità dell’artista, ed al contempo si sente tutta la mancanza di due figure chiave come Chiara Guidi e Claudia Castellucci, della matematica precisione compositiva della prima e della severità critica e drammaturgica della seconda. C’è invece un superlativo Scott Gibbons, che in quest’opera compie il suo capolavoro sonoro dando un notevole contributo alla narrazione dei diversi passaggi.
Più che un trittico, un affresco in tre ordini, questa lettura della Divina Commedia appare come un unico bacino magmatico, dal quale è possibile estrarre oggetti di altissimo pregio, come l’intero primo quadro del Purgatorio o i moltissimi momenti dell’Inferno, che pure resta un’opera inconcludente e in fondo incapace di toccare la sensibilità dello spettatore se non a livello puramente intellettuale. Eppure non è un passo falso (come fu Hey Girl!), e neppure un passo indietro. Questa trilogia è un passo necessario. Un passo ulteriore nella carriera artistica di Romeo Castellucci in un momento di crinale fra passato e futuro. E tale bilico si esprime proprio nella manifesta distonia fa il piano puramente simbolico dell’Inferno e quello iperrealista del Purgatorio. Questa immensa macchina spettacolare, fatta di palcoscenici che si sollevano da terra scoprendone altri, di robot alti quattro metri che gironzolano, di chiese allagate è dunque una sorta di grande atelier in cui si cerca, in cui nessun quadro è finito, ma tutto è lì apparentemente caotico, ad esporre le linee possibili di uno sviluppo.
Queste considerazioni generali, che mettiamo in apertura, servano a meglio seguire la cronaca dettagliata che qui segue.

Inferno
Sembra proprio mettersi in campo senza risparmiarsi Romeo Castellucci in questo Inferno. E lo dichiara apertamente nell’incipit, quando entra in scena fisicamente, si presenta «Je m’appel Romeo Castellucci», poi indossa una tuta imbottita e fa slegare tre cani inferociti che lo attaccano e iniziano a sbranarlo, trascinandolo in giro per il palcoscenico. La metafora è doppiamente chiara, da una parte appunto c’è l’esporsi fisicamente al proprio inferno, dall’altra c’è la necessità dell’accidente per entrarvi, l’incipit che qui coincide con cerbero, alle cui spalle si apre il dedalo di gironi da discendere. E dunque si può cominciare a partire proprio da quella pelle di cane che Castellucci, prima di rialzarsi in piedi, mentre è ancora carponi, si fa disporre sulla schiena in una trasformazione posticcia, ma allo stesso tempo simbolica, che apre la strada a uno dei due grandi assi di riferimento di quest’opera, ossia la eco di Pier Paolo Pasolini, sempre muta, mai confessata, ma che attraversa trasversalmente tutta l’opera e dunque, per estensione tutta la vicenda irrisolta di Castellucci, che in questo Inferno si identifica. E, in effetti, leggendo lo spettacolo, segno dopo segno c’è tutta la desolata joie de vivre di quella pagina di testamento in cui il poeta si dichiara «fratello dei cani». E così quella pelle passa di personaggio in personaggio, chi la indossa ne assume la grave eredità di segnato, di destinato ad essere voce che parla al di sopra delle voci, ossia artista. Ed è da qui che parte la riflessione di Castellucci, facendosi quasi commovente nella sua inevitata confusione, nel suo disordine senza direzione e senza sintesi, a volte ingolfato da scene fiume di decine di figuranti che s’abbracciano, ma fatto, in definitiva, di affondi verticali in apnea, che vanno quasi tutti a segno, ma senza una dinamica chiara. E’ un Castellucci che non ha nulla da dire, ma ha molto da chiedere, a dispetto del piglio politico che sembra emergere da alcune riflessioni su questa trilogia e dal prologo in cui nel Cour d’honneur del Palazzo dei Papi si aggirano liberamente gruppetti di turisti in k-way e infradito, zainetto in spalla e telefonino fotografico alla mano. Un quadro introduttivo che è la quintessenza della normalità e al contempo la ricerca del grado zero della rappresentazione, andando a ricordare l’episodio VIII della Tragedia Endogonidia, altro lavoro d’impronta politica, altra opera frutto di una riflessione sull’impotenza. Ma appunto questo prologo sulla condizione di spettatore del presente che vive l’uomo contemporaneo, ormai trasceso dalla possibilità di essere anch’esso elemento determinate e incidente sulla realtà e sul tempo, è un episodio isolato, volutamente una metafora esterna all’opera che da questo piano generico poi assume i contorni della più dichiarata soggettività. E che l’inferno sia un fatto personale lo si capisce immediatamente dopo l’uscita del regista dal palcoscenico, quando una figura seminuda, un Adamo (Adam in ebraico vuol dire “uomo”), raccoglie la pelle e inizia a scalare a mani nude la facciata del Palazzo dei Papi. Sale con calma fino al tetto, come una scimmia, replicando occasionalmente, senza sottolinearle, alcune posizioni che si possono leggere come i principali segni di definizione dell’essere umano successive allo status di homo sapiens, la crocifissione e l’uomo di Leonardo, iscritto nel piccolo rosone del cortile. Arrivato in cima l’uomo osserva un ragazzino entrare e indossare a sua volta la pelle di cane caduta, e dopo averlo fatto scrivere con una bomboletta di vernice il proprio nome, Jean, sul muro centenario trasformando in un attimo quello sfondo unico in un qualsiasi muro di una qualunque città. Dall’alto lo scalatore chiama il ragazzo e da oltre venti metri d’altezza gli lancia un pallone da basket. Jean lo raccoglie e ad ogni rimbalzo il frastuono sembra far crollare tutto, ogni rimbalzo demolisce la struttura del reale e provoca un vortice d’immersione nel sé e nei suoi misteri. E’ qui che chi conosce da tempo il lavoro di Castellucci inizia a capire uno dei capisaldi della sua poetica, ossia il segreto che gli permette di andare così a fondo nelle sue ricognizioni. Eccolo lì evidente, ancora una volta, ma ora più chiaramente: egli riesce a usare sempre simboli estremamente banali, letterali (come il pallone che starebbe a dire “adesso gioca la tua partita”) ma a renderli estremamente efficaci attraverso un processo di macro-ingrandimenti capace di trasformare l’oggetto più quotidiano in una mostruosità misteriosa. Un po’ come accade nel Through the looking glass di Carrol, cui appunto Castellucci deve moltissimo. Ma si fa appena in tempo ad appuntarlo che il regista scopre le carte in una consapevole definizione di poetica, rivelando l’altro riferimento centrale dello spettacolo, Andy Warhol. E’ sua la poetica di ingigantimento dell’oggetto del quotidiano per farlo diventare icona, sovvertendone apparentemente i significati e invece verticalizzandoli. Eccoli lì i titoli delle sue opere, con tanto di data accanto, proiettati in scritte luminose: Eat 1963, Sleep 1963, Tomato Soup 1968, Electric Chair 1971 e via dicendo, inframmezzati da un “Je m’appel Andy Warhol” che riecheggia l’auto-presentazione dell’inizio. Ma tra il genio newyorkese e Pasolini il dialogo è continuo ed è proprio alla sua definizione di “deserto” che nel lessico del poeta concide con quella di “inferno”, contenuta negli Appunti per un film su San Paolo, che Castellucci sembra rivolgersi quando con lettere luminose scrive “INFERNO” al contrario davanti all’immensa gradinata pullulante di pubblico. Una bambina, sola sulla scena osserva la scritta che per lei è dritta e lo sfondo cui si riferisce di noi assiepati, sempre inevitabilmente ridicoli demoni dannati. E così facendo si apre un’altra delle molteplici finestre e riflessioni dello spettacolo che procede in una costante, ma in realtà discontinua distonia fra due spazi che si osservano, quello della scena, che non è solo il luogo che si guarda, ma anche quello da cui si guarda se si è nei panni dell’artista, e quello della platea che è appunto anche il luogo in cui si è guardati. In questo scarto di soggettività c’è la frattura propria dell’artista che in questo momento della storia non si sente più parte di una comunità e marca attraverso il palcoscenico la propria distanza, il proprio confine privo di un nome, ma abissale. E non è appunto un caso che l’anno scorso a fare la stessa operazione sia stato Pippo Delbono – come a dire l’altro grande artista italiano di caratura internazionale - con uno spettacolo altrettanto feroce.
Ma quello fra artista e pubblico, tra io poetico e identità collettiva non è l’unico confine che si erge sul palcoscenico. L’altro, chiarissimo ed al contempo enigmatico è quello archetipo tra la vita e la morte, che viene introdotto dalla dedica agli attori deceduti negli anni della Societas Raffaello Sanzio che ad un certo punto campeggia luminosa nell’oscurità. Sono loro, presumibilmente, quelle ombre che fasci di luce riflessi dal palcoscenico allagato proiettano poi sulla parete di fondo al passaggio degli attori. A guardare bene sembra quasi impossibile la corrispondenza fra quelle figure sciatte e le ombre misteriose che generano, eppure Castellucci ne mostra impunemente la consecutività riuscendo forse nella più alta delle sue sfide, ossia quella di riuscire a proiettare l’anima. Da qui parte la riflessione sul confine tra mortale e immortale. Stavolta il regista la consegna direttamente a Warhol, che sbuca in carne ossa e parrucca da un rottame di automobile con la sua figura iconica. Warhol non è solo un immortale, ma addirittura si può dire che a tutt’oggi egli viva un passo avanti a noi, che sia più contemporaneo dell’attuale. E, infatti, è lui che applaude la platea attonita e quasi distrattamente gli scatta anche un paio di polaroid, mentre uno sfondo di piedi da obitorio inizia a tremare. Eccola l’immortalità che ad alcuni è data o forse è conquistata. Ed ecco l’arte come mezzo per ottenerla, per vincere la sfida contro la morte che in un certo momento dello spettacolo prende la forma di un enorme escrescenza nera che si gonfia sulla facciata laterale come un enorme tumore ad incombere su un recinto di ignari bambinetti. Ma ancora una volta a guardare bene anche Warhol – in fondo poeta della caducità - non sembra più che un fantoccio, un cadavere tenuto in vita dalla sua anima. Ad un suo cenno i televisori esposti nelle finestre più alte del palazzo e che proiettano le lettere della parola “ETOILES”, simili ad una formula magica dell’immortalità, l’ “emet” del golem occidentale, volano giù dalle finestre e si schiantano al suolo. Ne restano accesi solo tre nella luce che degrada al buio finale, quelli con le lettere “T”, “O” e “I”, perché l’inferno, appunto è un fatto personale.

Purgatorio
Da una dimensione più astratta che cita la realtà attraverso metafore, Castellucci uscito dalla natural burella si trova ad iniziare la propria salita della montagna purgatoriale con la consapevolezza che essa si trova fisicamente alla stessa altezza – nella cosmologia dantesca – del mondo dei vivi. Ed, infatti, è una cucina borghese l’ambiente su cui si apre il sipario di un teatro costruito dentro una specie di palazzetto dello sport nella zona fieristica a trenta minuti da Avignone. Il mobilio è anni settanta e si delinea alla vista emergendo dall’ombra nei riflessi che un pigro meriggiare spinge oltre le tende. Una donna prepara da mangiare ed un bambino sui dieci anni entra col suo Mazinga in mano. Poche parole tra i due. Una temporalità iperrealista che non forza i tempi del dialogo, ma li cadenza di lunghi silenzi intercorsi tra frasi ognuna delle quali potrebbe essere la fine di un discorso. La scena successiva si sposta nella stanza del bambino. E’ sera. Davanti alla televisione lui e la madre guardano dei cartoni animati. In terra ci sono dei giochi, tra cui il robot, ed, intorno, il letto e l’armadio dentro cui il ragazzino andrà a nascondersi subito dopo l’uscita della madre. A questo punto il palcoscenico viene fisicamente sollevato fino a sparire oltre il cielo del teatro. Sotto di esso un altro palcoscenico, più grande riproduce il salotto della stessa casa sul cui fondo campeggia una grande scala e in primo piano un pianoforte a coda. Dall’apice della scala il bambino illumina la scena con una torcia elettrica quasi stesse controllando che tutto sia sicuro. Nell’oscurità brillano gli occhi di Mazinga, alto quattro metri, che si muove per il salotto come fosse il guardiano dell’incolumità della famiglia, il protettore immaginario che ogni bambino proietta dalla sua fantasia per difendere l’equilibrio della salvezza di cui proprio nell’infanzia si avverte maggiormante la fragilità. E’ questo il prologo della scena centrale, la successiva, quando, la sera dopo, il padre del bambino torna da un viaggio di lavoro. Anche in questo caso l’azione sarà pienamente quotidiana ed anticipata per iscritto da sovratitoli che ne descrivono i diversi insignificanti accadimenti pochi secondi prima che essi si verifichino. Il padre «si toglierà la giacca», poi «accavallerà le gambe», poi «mangerà quello che sua moglie ha preparato», poi «parleranno di tutto e di niente», finché non chiamerà il bambino. A quel punto i sovratitoli continueranno a scorrere senza che vi sia più corrispondenza con le azioni realmente svolte sulla scena. Per iscritto la famiglia ascolterà della musica, i coniugi inizieranno a ballare, mentre il bambino inizierà a saltellare da solo seguendo il ritmo. Nei fatti la madre scomparirà in cucina in lacrime e il padre prenderà per mano il bambino portandolo con se in cima alle scale nello spazo dell’o-sceno. Il palco dunque rimarrà vuoto. Sullo schermo reta fissa l’ultima parola dei titoli: «La musique». Nelle orecchie, crudo, tutto l’audio di una violenza sessuale, di un abuso compiuto dall’uomo nei confronti del bambino. Non sono solo versi, ma anche frasi, inviti ad aprire di più la bocca, parole, insulti minacciosi e richieste di pietà. La scena dura diversi minuti. Uno spettatore francese si alzerà e se ne andrà gridando in italiano: «Vaffanculo, stronzo!» all’indirizzo del regista e sarà applaudito da una parte non minoritaria di pubblico. Poi in cima alle scale riappare l’uomo, col suo cappello e una maschera di gomma sul viso. Scende e si siede sullo sgabello del pianoforte. Sotto la maschera c’è un viso distrutto, di un uomo consapevole della propria mostruosità. Il bambino lo raggiunge, si siede sulle sue ginocchia e lo accarezza: «E’ tutto finito, papà». Qui si chiude il primo quadro ed in fondo finisce anche lo spettacolo seppure nei fatti conterebbe di altri due quadri, che tuttavia non aggiungono nulla e forse tolgono incisività al lavoro apparendo inutilmente didascalici e per certi versi contraddittori rispetto all’impianto lucido e crudele di quest’opera che non ha metafore, non ha niente, è secca nella sua evidenza consapevole delle regole del teatro, dei suoi fondamenti moderni (fortissimo è il riferimento alla costruzione elisabettiana) e delle sue possibilità contemporanee.
Come nell’Inferno, anche in questo lavoro Castellucci prende qualcosa di estremamente banale – pur nella sua mostruosità - e lo ingigantisce di 10 volte facendolo diventare una sorta di rebus. La meccanica si manifesta apertamente anche qui, com’è stato per Warhol nel lavoro precendente. Il secondo quadro è, infatti, una rassegna di immagini di fiori enormi che passano davanti agli occhi del ragazzino, il cui sproporzionato ingrandimento li fa simili a totem. Anche in questo caso – e forse più gravemente visto che a differenza di Inferno qui il lavoro non concede una simile libertà digressiva e soggettivistica – viene svelato il “trucco”. E la voglia di spiegare, di descrivere finanche l’ovvio, prende il regista a tal punto da voler costruire un ultimo quadro preso tale e quale dagli Spettri di Ibsen, in cui le tare del padre si manifestano sull’innocente figlio. Ma anche qui la citazione al simbolo del dramma borghese che Castellucci aveva egregiamente riscritto  qualche minuto prima non vale l’inutilità di un’intera parte di spettacolo il cui senso era già tutto contenuto nel quadro iniziale.
Quello cui si è assistito è, infatti, nella sua complessità un lavoro di grande interesse che pure mostra tutta una serie di rami morti che il regista non è riuscito a trovare la lucidità per togliere. Più o meno la stessa cosa che in Inferno con le scene di massa, fatta salva la differenza di piani di scrittura. E tali rimanenze vengono scartate dallo spettacolo stesso che nel suo svolgersi ne rivela palesemente la disconnessione e la superfluità. D’altra parte una digressione poetico-iperbolica come quella del secondo quadro (a prescindere dalla didascalia in essa insita) poteva essere riassorbita in un impianto di grandissimo respiro (ma di stringente precisione) come quello della Tragedia Endogonidia. In Purgatorio, il cui perimetro drammaturgico è estremamente più contenuto addirittura per scelta di poetica da parte del regista, la scena di Mazinga nel salotto è già il massimo che si possa ottenere.
Tuttavia ciò non basta a liquidare malamente un lavoro come questo Purgatorio, che, invece, giudicato solo nel suo primo quadro, è decisamente non solo il migliore dei tre lavori presentati, ma è anche un lavoro di grande qualità, che dà sponda a quella certa impronta realista che Castellucci aveva cercato nell’ultimo episodio dell’Endogonidia e nella Crescita realizzata a Roma l’anno prima. E’ già dalla scelta del tema che il regista nel suo «purgatorio delle quattro del pomeriggio» si collega ad un contesto realista come quello della letteratura francese, da Céline a Tournier, che tende a presentare l’infanzia appunto come un purgatorio, ossia come una regione di sofferenza dalla temporalità definita da cui si esce non del tutto indenni. Ed è proprio sul tempo che vuole giocare Castellucci, consapevole – come scrive nelle sue note – che il Purgatorio è l’unico luogo descritto da Dante, in cui sia riscontrabile l’azione del tempo. E dunque è proprio questo l’espediente drammaturgico principale che egli sceglie di utilizzare per muovere la sua opera rompendo la linearità del tempo-durata per farne una curva parabolica capace schiacciare lo spettatore lasciandolo attaccato alle pareti del lavoro secondo le leggi di una specie di forza centrifuga che fa vedere tutto al rallentatore. Il tempo, materia intangibile per definizione è allora calibrato indirettamente sulla base di fluttuazioni della luce e attraverso l’uso del testo che anticipa l’azione. In questo modo, la parola scritta ha una doppia funzione, quella di palesare l’anomalia della realtà cui si assiste (nel momento in cui parole e fatti non coincidono) e di scollegare lo spettatore dalla linea progressiva del tempo. Conoscere i movimenti dei personaggi prima che vengano compiuti fa viaggiare lo spettatore più velocemente rispetto alla temporalità dello spettacolo facendogli avvertire una dilatazione innaturale, anche se di fatto la scena procede con un ritmo realistico. Così Castellucci ottiene una temporalità opprimente ed estenuante che non c’è nel corpo della scena, ma è traslata, con un maggiore effetto sensibile, direttamente nel corpo dello spettatore attraverso la ricombinazione di linguaggi che a lui arrivano scomposti.
Così si costruisce un’opera che è al contempo un abbozzo estremamente interessante non solo in quanto lavoro in sé, ma anche per la definizione di un contesto che si svela di matrice iperrealista e in cui la poetica di Castellucci legata alla perversione carroliana dello sguardo quotidiano e alla costruzione di rebus dall’(apparentemente) irrilevante, può trovare il suo bacino ideale.

Paradiso
Di quest’ultimo tassello della trilogia non viene facile dire molto. Forse perché esso cerca appunto di stare nel paradosso di rappresentare l’irrappresentabile che va oltre le forze dell’«alta fantasia» dantesca. A ben vedere, dunque il Paradiso proposto da Castellucci è una specie di tentativo di scrittura nel vuoto e come tale s’avverte. Siamo oltre il significato. Questa singola immagine della durata di tre minuti, visibile attraverso un foro circolare nella Eglise des Celestins, non vuol dire niente. La chiesa è allagata e il pavimento riflette le arcate dell’alto soffitto. Al centro c’è un pianoforte a coda, trait d’union di tutta la trilogia, bagnato da un getto d’acqua (decisamente brutto). Di tanto in tanto lo sventolare di una bandiera nera copre il foro da cui si osserva. Questo è quanto. Non c’è nulla. Nulla di più. Ma da chi aveva disegnato il silenzio di Dio con tanta grazia nella Auschwitz di Genesi già dieci anni fa, oggi ci si poteva attendere che sapesse, del creatore, immaginare meglio anche la voce.