Un'immagine di P.P-P 4.2
Un'immagine di P.P-P 4.2
Romina De Novellis in
Romina De Novellis in "Zezą"

Ipotesi per il femminile
Denoma e S.A.N attraverso il ruolo dello spettatore esplorano tradizione e contemporaneo

Giacomo d’Alelio
 
Quanto separa la condizione di spettatore da quella di voyeur? Quanto l’elemento giudicante, insito sfortunamente in tutti noi, può prendere il sopravvento portandoci, prima di tutto contro noi stessi, a paralizzarci in totem che, a difesa di poche e cialtronesche sicurezze, si ergono in sentenze che ci allontanano dalla condizione di “agenti”, costringendoci nel reticolo del già detto, già visto, già? Quanto la figura femminile continua a donarci possibilità insperate di riflessione, nel suo essere generatrice di vita, ma anche mero oggetto da utilizzare a seconda dei propri capricci? Sono due questioni ben precise che pongono due dei lavori, tutti al femminile, che hanno contraddistinto la Vetrina Coreografica del 29 maggio, performance/spettacoli dove la tradizione e il contemporaneo sono stati esplicati nel foyer e sul palco del Palladium.

P.P-P 4.2 plastic play-pen 4.2 del Gruppo S.A.N. (Genova) vede Olivia Giovannini in attesa, sguardo rivolto alla parete, soprabito di plastica che la avvolge. Sulla schiena, che concede al pubblico di passaggio, un I Pod con cuffiette che si collegano a lei e a chi avrà la curiosità di entrare nel suo mondo. Accanto all’I Pod le istruzioni per l’uso, semplici e concise come qualsiasi manuale di utilizzo prevede. Chi si avvicina è gentilmente aiutato da un’assistente, che, sorridendo, chiede se può essere d’aiuto, passando gli auricolari e scegliendo uno dei brani contenuti nell’I Pod. L’assistente si trasforma poi in fotografa che da lontano cattura gli istanti di quello che avviene. E cosa succede? La macchina donna si attiva, agendo le musiche scelte in partiture già fissate, trascinando con sé chi si è collegato al suo cordone ombellicale. Si crea uno spazio altro in cui sono solo due corpi a conoscerne i segreti dettati dalle musiche e da ciò che percorre chi ha deciso di partecipare. La performer è totalmente estranea, non concede motivo di relazione con l’altro, è oggetto agente che impercettibilmente adatta la sua partitura alle peculiarità di reazione di chi si porta dietro, che più o meno timoroso di staccarsi dalle cuffiette, o intralciare il suo movimento, la segue, o tenta di danzare con lei, non ricevendo soddisfazione. Il resto dei passanti si ferma a osservare, non potendo sentire la musica che è solo loro, ma continua a guardare, tentando di entrare in quel mondo, assistendo impotente. C’è chi poi tenterà di carpire quei segreti partecipando successivamente, o rimarrà superiore, e timoroso dello sguardo altrui, a osservare.

Zezà della Compagnia Denoma/Romina De Novellis - di Roma, ma che si nutre anche delle origini campane della regista e danzatrice - è suggestione fantasmagorica, per ora in forma di studio, che delinea il mondo interiore di una giovane donna, le sensazioni da lei vissute nella sua crescita troppo veloce verso il pianeta adulto, causata dal sopruso sessuale che la porta ad avere in grembo un figlio non voluto, ma spintole dentro da chi da genitore diventa aguzzino. Tutto questo è incarnato dalla sola Romina De Novellis, fragile in tutta la sua femminilità, pura nella sua ingenua propulsione alla vita. Sul palco si succedono dei quadri che rimandano a quella tradizione del meridione che già nella Santa Barbara - precedente lavoro della regista - era stata protagonista. La prima immagine è quella di una porta “accesa” dalle luminarie da “sagra del patrono” da cui compare la De Novellis, musiche che provengono dalla pizzica tarantolata: danza la sua festa alla vita, che nasconde il dolore che le genererà. L’aspetta una tinozza colma d’acqua, in cui si immergerà risorgendo pronta, contro la sua volontà, alla gravidanza. Un’atmosfera febbrile e triste trasuda dal palco, mentre si avvolge di panni raccolti da un filo, su cui erano stesi, diventando la pancia in cui si trova il futuro nascituro, non voluto. Doloroso termina questo viaggio nei fantasmi del sopruso dal grido senza voce con l’immagine dell’incinta fanciulla che sdraiata su di un tavolo accoltella ripetutamente ciò che porta in grembo, cancellando così se stessa.