Libera nos a malo
Editoriale

Gian Maria Tosatti
 
«Ve lo dico io com’è la rivoluzione. Tutti morti.» E’ così che Andrea Cosentino avvia la conclusione del suo ultimo spettacolo teatrale, Antò le momò (dedicato, guarda caso, ad Antonin Artaud), fendente trasversale ad aprire una feritoia nella coltre calata sul presente. «Ve lo dico io com’è la rivoluzione. Tutti morti.» Eh già. La liberazione dell’essere umano dalle metastasi del capitalismo, dai votantonio! o dai vibratori con l’iPod incorporato (che esistono davvero!). E poi ancora l’ultimo spettacolo di Federico Tiezzi, i Giganti della montagna di Pirandello, tutti morti. Gli scalognati, tutti morti, “tòt mort” come recitava la voce estatica di Ermanna Montanari per diradare la nebbia/sipario che apriva il Sogno di una notte di mezza estate del Teatro delle Albe. «Ve lo dico io com’è la rivoluzione. Tutti morti». E’ curioso come ritorni nell’arte contemporanea e nel suo teatro questa dichiarata (perché pronunciata con formula chiara) analogia della salvezza con la morte. La rivoluzione è desistere, è sparire, bianca, come la morte, come le schede bianche del Saggio sulla lucidità di Saramago, assente non militante, bianca e di questi giorni verrebbe da dire, appunto, operaia.

E poi Cosentino continua, se non si fosse capito, in un dialogo fantomatico. Dice: “Comprati il Big Tasty Burgher” e si risponde: “No, mi dispiace, sono morto”. E poi continua: “Periodo di saldi, negozi aperti fino a mezzanotte” e taglia: “Sono Morto. Portafogli chiuso per lutto”. La volontà è tagliata fuori, è fuori portata, ormai l’unica forma di opposizione possibile è appunto l’impossibilità, l’assenza.

Vagabondando di notizia in notizia, passando in banca e all’ufficio postale, salendo la china delle parcellizzate soddisfazioni quotidiane a sfondo sessuale o affettivo si perde di vista questa dinamica della scomparsa che sta tesa sul filo (di rasoio) del discorso contemporaneo. Questa sostituzione di arsenali che scambia le armi spianate con le armi rivoltate, la lotta armata col cappio al collo. Che scambia il venirne fuori con l’uscire.
A guardarlo stralunati questo panorama sembra familiare anche quando fa cadere dalle nuvole. Ma poi ragionandoci su anche la morte non sembra nemmeno un atto rivoluzionario. E’ solo una questione di prospettiva a farla apparire conseguenza di un più rassicurante conformismo. Le metastasi del capitalismo in fondo non possono portare che alla stessa conseguenza dell’atto rivoluzionario, la morte.

Apriamo così il primo quadro di questo polittico sulla politica. Lo dedichiamo all’etica. Seguiranno il controllo e il mercato. Negli articoli il lettore troverà l’opposto di quanto è scritto in questo editoriale, troverà una serie di proposte, di possibilità, di concrezioni artistiche di un anelito a continuare a vivere, a dialogare, ad essere ancora ostinatamente umani, contro l’alternativa vegetale della decomposizione. Ma pensando all’etica la prima cosa che viene in mente, e forse il pungolo che ci incita a parlarne, è la desuetudine di questo termine e di questo concetto, la sua scomparsa dal lessico e dalle pratiche. L’etica appartiene alle cose scomparse. Alla società contadina, alle utopie del monte Amiata, agli affreschi di Turoldo, ai morti, a quelli che si accomiatano sui palcoscenici, agli artisti che svaniscono dietro le luci dandosi per morti, sfumando il grido di “Guardatemi, scompaio!”, come Pippo Delbono che diceva Sarah Kane. E costruendo questo numero, nel suo equilibrio funambolico, fra tensione e realtà, molti sono i passi falsi in cui l’etica pare proprio appartenere giusto ai morti, al popolo: ai pazienti degli ospedali siciliani che vengono decimati mentre ci si preoccupa di scambiare voti; alla magistratura: a Falcone e Borsellino contro cui piovono le scempiaggini del giovane e rubicondo Totò Cuffaro; ai politici: ad Alexander Langer che ancora pende dal suo ramo di albicocco. Eccola la società italiana in cui la parola “etica” non è desueta. E’ la società civile dei morti. Dei rivoluzionari. Tutti morti.