Un'immagine dello spettacolo
Un'immagine dello spettacolo "La passione delle Troiane" di Cantieri Teatrali Koreja
Una immagine delle proteste in Iran
Una immagine delle proteste in Iran

Le armi dell’immaginazione
Al Fadjr International Theater Festival di Teheran il pubblico continua ad esercitare quella libertà che nessun regime riesce a reprimere

Mariateresa Surianello
 
Mentre su Gheddafi piovono le bombe della coalizione dei volenterosi, dopo la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che ha imposto una no-fly zone sulla Libia, i venti di rivolta del Nord Africa soffiano sempre più forti in Medio Oriente. Dalla Siria, dove nelle ultime ore la polizia ha sparato sui manifestanti, uccidendone almeno trenta, al Bahrein, che ha vietato qualsiasi attività marittima dalla 5 del pomeriggio alle 6 del mattino, fino allo Yemen la cui capitale Sanaa, il 18 marzo, è stata teatro di una mattanza di dimostranti. Cinquanta morti nei pressi dell’Università, ma fonti diverse ne hanno contati oltre settanta. E con il gigante Saudita che, se ancora argina le proteste interne a suon di promesse del re Abdullah, si compromette inviando in Bahrein le sue truppe per reprimere la rivolta degli oppositori al regime del piccolo regno, per altro inserito nella lista nera dei paradisi fiscali. Un intervento considerato d’occupazione sull’altra sponda del Golfo Persico, dove i “bevitori di sandis” di Ahmadinejad non hanno mancato di manifestare contro l’Arabia Saudita e, ovviamente, gli Stati Uniti. In una messinscena organizzata dal regime iraniano che distribuisce, appunto, ai partecipanti queste bevande di scarsa qualità. Ce lo raccolta Leila, giornalista iraniana che preferisce usare uno pseudonimo per timore di ritorsioni. Da quando, lo scorso febbraio, hanno arrestato Hossein Mousavi e Mahdi Karrubi, i due leader dell’opposizione, la tensione è alle stelle. E’ stato alzato il livello della repressione e della censura per contenere l’Onda verde e le auto convocazioni della piazza suscitano inquietudine nel Movimento. Gli oppositori del regime non si fidano delle chiamate a manifestare, che potrebbero arrivare da infiltrati dei temuti basiji (i miliziani volontari agli ordini dei pasdaran, i guardiani della rivoluzione) e comunque è sempre più difficile documentarle. Macchine fotografiche e telefonini vengono sequestrati con estrema facilità, così l’assenza di immagini – dice Leila – equivale alla non esistenza di proteste e l’Onda verde non riesce a far sentire la sua voce fuori dall’Iran.

Un oscuramento avvenuto sistematicamente nei giorni della protesta di febbraio, quando a Teheran era in corso il Fadjr International Theater Festival, dieci giorni di programmazione, che ha accolto anche tre compagnie italiane. Tre gruppi (Socìetas Raffaello Sanzio, Muta Imago e Cantieri Teatrali Koreja) che collocano questo festival all’interno di un circuito internazionale sensibile a espressioni sceniche avanzate nella loro libertà di sperimentare forme e linguaggi e di raccontare la complessa realtà del nostro presente. Un progetto quindi audace di raccolta e di diffusione di contenuti poco tranquillizzanti e in apparente contraddizione con l’immagine che in Occidente ci siamo costruiti del paese degli Ayatollah. E’ difficile immaginare che l’Iran, dove il formalismo di una quotidianità segnata dalla falsa lettura della legge coranica vieta il contatto fisico in pubblico, e finanche una stretta di mano, tra donne e uomini, possa ospitare un festival di teatro portatore di cifre non asservite ai dettati dell’omologazione culturale. Come a dimostrare il definitivo scollamento tra l’oligarchia religiosa al potere e la società civile iraniana, che si nutre di arte e cerca di risvegliare anche le coscienze di quanti ancora si accontentano della carità governativa e per estrema miseria rinunciano al cambiamento.

«Era difficile rendersi conto concretamente di cosa stesse accadendo – ci racconta Claudia Sorace, regista di Muta Imago - non puoi andare sui siti dei giornali italiani ed europei, c’è una realtà parallela che è quella dell’informazione che ti danno lì. Sapevo della manifestazione, perché andando in macchina ho visto le strade riempirsi di polizia. Ma non riuscivo a capire cosa e dove stesse succedendo, funziona tutto sul passaparola». Franco Ungaro di Koreja invece ha provato più volte a uscire dal teatro per tentare di capire quale fosse il percorso del corteo, ma è stato – sottolinea - «bloccato e allontanato con forza dalla polizia». Mentre anche all’interno del City Theatre le persone erano inquiete, sospettose, impaurite – rileva il direttore organizzativo della compagnia leccese, ospite del Fadjr già lo scorso anno - «come se qualsiasi contatto con l’altro – spiega Ungaro - li portasse a sbagliare, a commettere un errore, un crimine». Sono parole dure che traducono la pena di un uomo con una spiccata vocazione all’apertura e allo scambio. Forse del tutto casuale, ma significativo di un modus operandi è stata la calendarizzazione subito dopo la trasferta a Teheran, ai Cantieri Koreja di “Costruire muri. Costruire ponti”, una quattro-giorni di incontri e dibattiti che hanno portato a Lecce decine di rappresentanti di realtà teatrali internazionali – in particolare dell’Est europeo. A casa è tornato in scena, tra gli altri, La passione delle troiane, lo spettacolo che per le repliche iraniane ha obbligato le attrici a coprirsi il capo. «Abbiamo fatto delle prove per evitare problemi con il responsabile addetto al rispetto delle norme, il quale usa metodi molto soft di persuasione, scusandosi per il fastidio che potrebbe portare agli artisti. E ripete continuamente: “Lo vuole Allah”». Koreja ha pure adattato una danza di coppia, per evitare che il contatto tra i corpi dispiacesse ad Allah, ma queste modifiche – assicura Ungaro – non hanno «comportato un cambiamento nei linguaggi dello spettacolo». Anche Muta Imago ha dovuto attenersi alle norme islamiche e nell’allestimento di (a+b)³ a Teheran Claudia Sorace in scena si è dovuta mettere il velo, mentre è passata la sigaretta, nonostante le donne non possano fumare in pubblico. Mentre in Lev «è stata tagliata la proiezione dell’immagine della ballerina, perché – spiega Sorace - si tratta di una donna poco vestita. In realtà la censura è sempre un po’ stupida, ti va a tagliare la cosa più evidente, sebbene tu debba metterti il velo, non cambia la storia che racconti».
L’obbligo di attenersi anche in scena ai canoni islamici entra quindi direttamente nel processo creativo e impone la costruzione di una sorta di codice condiviso con lo spettatore, il quale è chiamato a completare il messaggio dell’attore. Una costrizione che se presuppone una partecipazione più attiva dello spettatore, implica dei risvolti di totale ipocrisia. Per aggirare la censura, specialmente nel cinema, il casting cerca interpreti che siano parenti tra loro, in modo da rendere lecito il contatto fisico, ma si arriva a dichiarare un falso legame familiare e ciò basta a salvare la scena di un abbraccio. Ma questa coercizione in teatro invece presuppone una maggiore consapevolezza del pubblico, con il rischio di escludere dalle sale ampie fette di popolazione meno scolarizzate. Infatti, quello che si incontra a Teheran «è un pubblico molto colto, che proviene da università, scuole di teatro, accademie, conservatori ed è – afferma Franco Ungaro - molto giovane, come tutta la popolazione di Teheran (gli anziani sono pochi, quella generazione è stata eliminata dalla guerra con l’Iraq). E’ un pubblico che vede molto teatro, conosce bene le tragedie classiche e sa cosa succede con le compagnie internazionali, gli obblighi ai quali vengono sottoposte e credo – dice ancora Ungaro – sia più interessato alle storie e ai messaggi veicolati dagli spettacoli, il coinvolgimento avviene attraverso la bravura dei performer».

Entrambi, chi fa e chi guarda il teatro, devono scavalcare il limite imposto dall’islam. «Ho percepito nello sguardo degli spettatori – afferma Claudia Sorace - una capacità di sviluppare la metafora molto più evidente che da noi. La nostra cultura occidentale si muove su l’esposizione totale, su un’idea di rendere manifesto e trasgressivo quello che è già manifesto. Per me è molto interessante artisticamente misurarmi con il limite. Devi aggirare un limite formale per significare altro. Quando la cosa funzione si crea una complicità con lo spettatore che è molto interessante. Tu vuoi dire una cosa e la devi nascondere, ma chi guarda la capisce». Comunque, «la censura è una violenza. E’ una violenza che ci sia qualcuno a giudicare se il tuo lavoro corrisponda a canoni prestabiliti, non sto dicendo che arrovellarsi per superare questo limite sia una grandissima opportunità». Dal canto suo Ungaro sottolinea quanto «condizionanti siano i limiti fisici che vengono posti agli attori iraniani, la loro impossibilità di dispiegare appieno le potenzialità e le tecniche. Si ha un attore “mutilato”. Ma come sanno gli attori migliori, lavorare con l’handicap produce maggiori stimoli, potenzia alcune facoltà e abilità. La mancanza è un punto di forza del teatro».

Sicuramente, la presenza a Teheran di ospiti internazionali per il festival di teatro ha permesso l’amplificazione delle proteste, le notizie degli arresti e dei due ragazzi morti sono immediatamente uscite dal paese. E l’invito al Fadjr di artisti come Castellucci e Peter Stein «segnala il desiderio di sparigliare, di tentare timidamente un azzardo, una sfida verso il rinnovamento. Vedo tutto in movimento – conclude Franco Ungaro – con ribaltamenti e irrigidimenti possibili. Una partita aperta a possibili cambiamenti e restaurazioni. In bilico». Se i paesi arabi stanno per la prima volta producendo un movimento di rivolta che chiede migliori condizioni di vita, il riconoscimento di diritti primari con la libertà di espressione in testa, anche la popolazione dell’Iran sciita può aspirare a uno stato laico. Ma i giovani iraniani in lotta hanno chiaro quanto incida l’ipocrisia dell’Occidente nella conservazione dello stato delle cose, nel gioco degli equilibri internazionali, si grida contro il tiranno Ahmadinejad, ma si continua a fare affari con il suo potere economico.

Teheran – metropoli da 15 milioni di abitanti – continua a macchiarsi del sangue di chi manifesta, perché quella dittatura islamica non corrisponde alla volontà del popolo iraniano. «Si ha una sensazione di prossima esplosione – conclude Claudia Sorace, che con Muta Imago, dopo La rabbia rossa sta lavorando alla seconda tappa di Displace (debutta al Festival delle Colline Torinesi, 13 e 14 giugno). Come se si stesse per bere una bevanda gassata… appena apri il tappo…».