Un'immagine delle proteste in Tunisia
Un'immagine delle proteste in Tunisia
Mohammed Bouazizi, il giovane venditore ambulante che dandosi fuoco ha innescato la reazione delle proteste nordafricane
Mohammed Bouazizi, il giovane venditore ambulante che dandosi fuoco ha innescato la reazione delle proteste nordafricane

Disorientamento occidentale
Le risposte che gli Stati non sanno dare alle evoluzioni della Storia

Emanuele Giordana
 
Quando una situazione, per quanto imperscrutabile e imprevedibile, precipita, la diplomazia si mette al lavoro. E' nelle crisi che si vede la stoffa, la preparazione e di quanti e quali strumenti è in possesso. Ma la domanda che le rivoluzioni nel mondo musulmano ci hanno posto in queste settimane è: li abbiamo questi strumenti? O sono così antiquati da non permetterci più di leggere, se non il presente, almeno il futuro?  Come italiani, la rivolta del Mediterraneo, dall'Egitto alla Tunisia passando per la Libia, ci ha visto solidamente impreparati, con qualche gaffe notevole (come indicare durante la crisi a Tunisi il modello Gheddafi), un esagerato prendere tempo (non disturbiamo il colonnello) e poi, improvvisamente, fautori dell'esibizione muscolare (ora La Russa vuole che anche i nostri aerei vadano a caccia).  Non è il caso di dilungarsi sui rischi insiti in questa scelta, ben presenti in primis all'Amministrazione Obama e ai vertici delle Nazioni unite, sulla quale conviene invitare, questa volta sì, alla prudenza, se non si ha troppa fretta di innescare l'ennesimo conflitto dagli esiti incerti: un altro Afghanistan dietro l'angolo nel quale sperimentare nuovi sistemi d'arma mettendo in conto, nel centrare gli aerei del rais, qualche quotidiano bilancio di effetti collaterali civili.



Ma il vero punto, come in particolare segnalano bene le difficoltà delle diplomazie occidentali, è come attrezzarsi nell'epoca in cui, con eccessiva semplicità, abbiamo liquidato schiere di funzionari pubblici con la feluca in nome del fatto che la “politica estera adesso la fanno presidenti e primi ministri” e in una fase in cui la società civile, assai più di ministri e cancellieri, tiene banco sulla scena politica come la vague méditerranéenne sembra indicarci.

Sul primo punto è chiaro che la semplificazione è quantomeno superficiale: se premier e capi di stato decidono nei vari G declinati numericamente (G2, G8, G10, G20 e via moltiplicando), sono ambasciatori e consiglieri, segretari e consoli a tessere una tela diventata sempre più intricata. La diplomazia ha assai meno bisogno di cene ufficiali e cerimoniali ma assai più necessità di orecchie e occhi attenti. In una crisi come quella libica avrebbero dovuto essere i rapporti con gli ex ministri di Gheddafi, quelli antichi col rais, quelli nuovi con gli emergenti capi popolo a salvare il salvabile.  Per un Paese la cui Costituzione impone il ripudio della guerra “come strumento di offesa e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”, la diplomazia è un'arte sacra, un'opzione irrinunciabile, la spina dorsale stessa del Dna del nostro Paese. E qui si viene al secondo punto.



Quanto siamo attrezzati oggi (noi, i francesi, i tedeschi, gli americani) a comprendere il mondo in cui viviamo? Quanto siamo in grado di capire, non tanto quando un regime dittatoriale cadrà, ma quali saranno i suoi becchini? Quanti contatti abbiamo, in una parola, con la società reale dei Paesi in cui operiamo? Quanto conosciamo le sue associazioni, i suoi centri culturali, le sue espressioni nascoste di dissenso, i circoli, i ritrovi, i luoghi dove il malessere si esprime e dove nascono, maturano, si fanno strada i nuovi leader? Una salda diplomazia coltiva empirei e bassifondi, il “Circolo della caccia” e le associazioni di quartiere, i salotti dei notabili e i luoghi di ritrovo al parco pubblico dove si diffonde il pensiero antagonista che non trapela sui giornali di regime, nelle discussioni dei politici ammaestrati, nei finti reportage delle tv di Stato. 



Questa conoscenza, che si fa metodo e strategia, ha naturalmente bisogno di una direzione e di un ripensamento dei vecchi strumenti diplomatici che il mondo moderno ha messo in crisi: un ripensamento che guidi i giovani studenti della scienza diplomatica nei meandri di facebook tanto quanto nell'abile capacità di stendere un valido “trattato di amicizia”. La Libia è un buon banco di prova. Ma non solo per mostrare muscoli tardivi, velleitarie opzioni sull'uso della forza, lo stantio ricorso all'ingerenza umanitaria che, se non ben maneggiate, trasformano le missioni di pace in guerre senza fine (anche se quasta volta, fortunatamente, c'è una copertura Onu largamente condivisa e che gode dell'astensione di Cina e Russia che pure avrebbero potuto esercitare il veto).


Su questo banco di prova si dovrebbe misurare la statura di un Paese (e dell'Europa), la sua capacità di mediare, di proporre soluzioni, di individuare referenti e protagonisti. Un esercizio che ben fatto ci salverebbe dal pericolo sempre presente della guerra. Davvero l'ultima delle opzioni cui pensare quale che sia la forma in cui si manifesti. L’ultima ma, come sempre, anche la più facile, come le notizie più recenti stanno confermando. Le parole non hanno saputo parlare e gli aerei si alzano in volo…