A che serve la televisione
Editoriale

Gian Maria Tosatti
 
In un libro estremamente acuto, Lo sguardo e l’evento, Marco Dinoi, ricorda rapidamente il Don Chisciotte incompiuto di Orson Welles. Un breve lavoro in cui il cavaliere di Cervantes, seduto in una platea cinematografica, si lancia contro lo schermo fino a squarciarlo, tra lo stupore di un pubblico, lucidamente consapevole della differenza di piani fra immagine e realtà.
Quest’opera di Welles è un paradosso che, come sempre, nasconde una verità a sua volta paradossale. Guardando il film, o forse alla fine del film, infatti, ci si chiede chi effettivamente sia dalla parte giusta, il pubblico, nel suo distacco sterile, o il cavaliere dalla complessa Weltanschauung.
Tale paradosso cinematografico diventa ancora più calzante se portato nel presente e adattato al rapporto che intercorre fra spettatore (o, più correttamente, spettatori) e televisione. In una linea di continuità che parte dal concetto heiddegeriano di “immagine del mondo” e arriva alla constatazione di Barthes secondo cui gli uomini «vivono conformemente ad un immaginario generalizzato», Dinoi ci aiuta a capire come «la finestra sul mondo tenda a diventare il mondo». Ciò in virtù del fatto che lo spettatore contemporaneo crea naturalmente, come Don Chisciotte, un piano esperienziale misto fra ciò che è reale e ciò che è rappresentato dall’immagine. Cosa che si dimostra giusta e fondata se si tiene conto che, di fatto, la televisione è lo strumento percettivo più evoluto che l’uomo abbia sviluppato da quando la sua identità ha iniziato a sviluppare un piano metamorfico che rendesse le macchine una estensione di sé.
 
Assunta dunque a sesto senso la scatola delle visioni, con i suoi modelli culturali e la sua informazione sul presente-futuro, assume una essenza trascendente, vagamente oracolare, simile alla palla di vetro delle fattucchiere medievali, qualcosa entro cui è contenuta l’anima del mondo e il romanzo delle Parche.
Eppure, in un epoca di ateismo temperato, risulta assai difficile poter assegnare consapevolmente alla televisione quel ruolo di specchio magico che, di fatto, poi s’innesca per magnetismo ogni qual volta l’elettricità statica dello schermo trattiene come una forza di gravità il flusso dei pensieri e di suggestioni di chi gli sta di fronte. Così, a ben pensarci, l’onniscente finestra, come nel Mago di Oz, appare nella sua cruda limitatezza, ma ancor più nella sua perversione di amplificatore non dei nostri sensi, quanto dei disegni di qualche architetto, o meglio, di una squadra di architetti, ordinati in fila indiana lungo la linea di un palinsesto.
La percezione umana passa dunque per uno strumento maneggevole e maneggiato, la cui pretesa obiettività va esattamente contro la stessa costituzione dell’identità del mezzo che, non essendo veramente magico, prevede che dall’altra parte della bocca della verità vi sia un operatore con la tagliola il cui obiettivo è far emergere una determinata e, gioco forza, limitata versione della realtà. Non è questo necessariamente un male. Che lo sia, o che invece sia il suo opposto dipende da quale funzione viene con chiarezza attribuita allo strumento e alle sue meccaniche.
 
Se è innegabile un legame fra la televisione e il teatro (che è stato appunto la televisione per 25 secoli), nella prospettiva appena proposta esso diventa quasi una linea guida, una istruzione per l’uso. E riferendosi al teatro, ed alla sua funzione, Bertolt Brecht, ebbe a dire nel 1955 (ossia quando la televisione non era ancora un mezzo di comunicazione della massa) che «il mondo d’oggi può essere descritto agli uomini d’oggi solo a patto che lo si descriva come un mondo che può essere cambiato».
In questo senso, attualizzando, si potrà affermare che, per lo spettatore contemporaneo, funambolo come il Don Chisciotte di Welles sul filo teso fra platea e schermo sfondato dall’immagine, la televisione serva a misurare la distanza fra il ruolo tragico dell’essere umano (delineantesi attraverso i contenuti: fiction, film, sceneggiati, sit-com, ecc.) e i confini della realtà che lo contengono (descritti dall’informazione dei telegiornali o delle trasmissioni di approfondimento).
Tale scenario sviluppa una prospettiva dialettica di rapporto fra l’ambizione umana e una lettura in chiave tragico-greca dell’assunto di Charles Wright-Mills (contemporaneo a quello brechtiano) secondo cui l’uomo contemporaneo è trasceso nella possibilità di incidere sull’evoluzione (politica) del mondo, fin nei suoi microcontesti. Ed appunto nella differente accezione che queste due visioni danno al concetto di “destino” che si consuma la sintesi della questione. La televisione può essere lo strumento in grado di collocare l’uomo nella realtà permettendogli di eleggere un destino che la sua ambizione dovrà battere.
 
Da questa ipotesi nascerebbe una Tele-destino, effettiva “rifondazione” della tragedia classica (che avrebbe come precursore il progetto di un teatro “effettivamente” televisivo che ha portato per tre anni la Societas Raffaello Sanzio a creare agoni nelle città simbolo di tutta Europa). Una necessità ontologica del mezzo che coincide con una necessità storica della società. Tele-destino sarebbe una televisione fatta da architetti e drammaturghi, in cui i la catarticità dei “contenuti” e l’oggettività dell’informazione sarebbero paradigmi imprescindibili. (Tutto l’opposto di Tele-sogni, il terribile incubo concepito anni fa da Maurizio Costanzo di televisione fatta dalla gente, priva di contenuti e priva di destino, sabbia mobile dell’intelletto e colonna portante della stagnazione sociale, che dalle nostre finestre aperte sul mondo entra quotidianamente nelle nostre vite).